In realtà non è facile parlare del mio disturbo mentale, anche perché ci sono alcune cose che il mio cervello, per difendermi, ha deciso di rimuovere, e su alcuni punti faccio confusione.
C’è un periodo della mia vita di cui non ricordo tutti gli eventi o non li ricordo in ordine cronologico.

Direi di iniziare dalla fine: sono guarita. Perché sì, i disturbi mentali sono vere e proprio malattie e quindi sono anche curabili: si può anche guarire.
Che sono guarita non l’ho deciso io, ma l’ha deciso il mio psicologo, quello che mi ha avuta in cura per circa tre anni.
La diagnosi era ‘depressione’, presumo, ma io non l’ho saputo, se non quando ormai il periodo peggiore era passato.

Non so se avrei preferito saperlo, ci sono i pro e i contro delle etichette. Sapere come definire quello che si sente, sapere di avere una vera e propria malattia di cui soffrono anche altre persone, fa sentire meno soli, meno ‘pazzi’ e meno strani, da un lato.
Dall’altro l’attribuirsi un’etichetta aumenta lo stigma sociale e in alcuni casi peggiora anche la malattia stessa, forse non me lo hanno detto per difendermi da quello che io avrei pensato di me stessa.

Quando ho iniziato la terapia (in realtà era il secondo tentativo di terapia) non mangiavo. Non ho mai sofferto di un vero e proprio disturbo alimentare, non mangiavo semplicemente perché non facevo nulla. Non avevo la volontà di fare nulla.

Smettere di andare a scuola non ti uccide, smettere di uscire di casa non ti uccide, smettere di avere amici non ti uccide, smettere di lavarti non ti uccide, smettere di alzarti dal letto non ti uccide. Se smetti di mangiare, invece, muori.

Per questo mia madre ha deciso di portarmi da uno psicologo. Avevo diciotto anni. Avrei dovuto frequentare l’ultimo anno di liceo classico, ma l’anno prima ero stata bocciata. A causa delle assenze, principalmente.
Avevo cambiato scuola l’anno successivo, pensando che, in quel modo, il mio rifiuto per l’ambiente scolastico sarebbe passato, ma non è successo. 

Dopo poco tempo ho ripreso ad avere difficoltà ad andare a scuola e ad assentarmi di nuovo ogni giorno.

Con la mente di adesso non so spiegare il motivo di questo rifiuto. So solo che al solo pensiero di trovarmi in una classe, di avere a che fare con dei professori, di stare in mezzo ad altre persone, mi veniva il panico.
Non un panico in fondo gestibile, ricordo che pensavo che avrei preferito morire piuttosto che andare a scuola. Ma morire davvero, non come modo di dire.

Il rifiuto per la scuola è stata la prima manifestazione evidente del mio disturbo, ma non è a causa della scuola che ho sofferto di depressione (cioè, non solo a causa della scuola).
La mia sofferenza ha origini molto più lontane, forse addirittura da ricercarsi nella mia infanzia e nella mia adolescenza, che ho trascorso con un’autostima veramente bassissima.

Mi odiavo, odiavo il mio corpo ‘troppo ingombrante‘, odiavo il mio essere ‘troppo sensibile’.
La separazione dei miei genitori e tutto quello che ne è derivato è stata la goccia (o meglio: lo tsunami) che ha fatto traboccare un vaso già molto pieno di sensi di colpa, odio per me stessa, mancanza di autostima e di voglia di vivere.

Adesso ho quasi venticinque anni, sono passati sette anni da quel periodo, e sono quattro anni che non sono più in cura, che sono guarita.
Adesso riesco a parlare di tutto questo abbastanza lucidamente e con distacco, riesco a trattare il mio disturbo come se fosse una polmonite o una frattura alla gamba.
Ne parlo come quello che è: una malattia. Una malattia che, come tutte le malattie, io non ho scelto.
Però, in realtà, quando lo vivi, è dura spiegarlo.

Se ti rompi una gamba, se ti prendi la polmonite le persone ti vengono a trovare e ti portano dei fiori.
Se ti prendi la depressione, le persone ti scansano come se fossi un criminale.

Tu puoi dirlo quanto vuoi che non è che sei capricciosa, viziata, non è che sei pigra e per questo non ti alzi dal letto. Stai male, hai un problema, una malattia che tu non vorresti proprio avere.
Puoi provare a spiegarlo quanto vuoi, sì, ma le persone, di solito, non capiscono.

O perlomeno non hanno mai capito quelli che allora erano miei amici, non hanno capito i professori, non ha capito parte della mia famiglia. Oltre che malata, ti ritrovi anche sola.
Io sono stata fortunata.

È vero che gran parte delle persone che facevano parte della mia vita in quel momento non hanno capito e si sono allontanate, ma è anche vero che, da altre, ho ricevuto l’aiuto che mi serviva. Da mia madre, dalle mie sorelle che ci sono sempre state per me.
Dal mio psicologo, che mi ha salvato la vita e al quale sarò sempre grata. Non tutti hanno la fortuna di avere qualcuno che li sostenga e li aiuti, non tutti hanno la possibilità di curarsi, purtroppo.

Ho quegli anni abbastanza confusi nella mente, non saprei spiegare come io sia guarita.
È un lavoro lento e faticoso quello di ricostruirsi l’autostima e di ritrovare la volontà di vivere. Non è che ti svegli una mattina ed è tutto passato all’improvviso.

Va a periodi: ci sono mesi in cui va tutto bene, mesi in cui hai ricadute. Ci sono giorni in cui sei veramente felice e ti senti benissimo, giorni in cui i pensieri depressi ritornano e tu non ce la fai ad alzarti, a fare le cose che dovresti fare.
È una lotta continua quella contro un disturbo mentale, una lotta che per me continua anche oggi, anche se sono passati anni, anche se mi sento guarita e anche se sono guarita.
È una continua lotta per non ricaderci.

Perché, quando hai toccato il fondo più fondo, quando hai visto l’inferno, non ritornarci è il tuo primo pensiero, sempre.
Anche adesso ho giornate no. Ma so che sono solo giornate, so che poi passano.
Oggi sono felice, sto bene, amo la vita, amo me stessa, sono fiera di esserne uscita e di poter essere qui a raccontarlo senza paura o vergogna.
Durante questi anni ho fatto dei miei spazi social un luogo in cui parlare liberamente di disturbi mentali e salute mentale, un luogo dove rompere i tabù e lo stigma e dove diffondere positività e amore per la vita“.

La testimonianza di Virginia Marchionni è davvero intensa, e racconta con lucida razionalità di un vissuto estremamente doloroso, in cui, alla sofferenza data dalla malattia si è aggiunta quella dell’abbandono, della non comprensione, dell’isolamento. Come spesso accade a chi è malato di depressione, perché le malattie “invisibili” vengono di solito ignorate o sottovalutate dalle persone.

Se una cosa non la puoi vedere, o toccare, allora non esiste.

Ma con i problemi di salute mentale non va così: questi disturbi esistono e tormentano chi ne soffre, che troppo spesso non ha neppure il coraggio e la forza per chiedere aiuto. Così non è stato per Virginia, che oggi, pur continuando a lottare, si sente guarita, e riesce a parlare apertamente dei suoi problemi sia sulla sua pagina Instagram che sul suo blog.

Apertamente, come dovrebbe essere per tutti: senza tabù, senza l’incombenza di uno stigma sociale che non ha senso d’esistere e che si basa solo su retaggi fitti di ignoranza e false credenze. Chiunque abbia un problema mentale dovrebbe essere come Virginia, totalmente aperto verso di esso. Solo così si conquista la vera chiave della libertà.

 

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