Claustrofobia, l'incubo soffocante di chi ha paura di essere messo in gabbia
Evitare gli ascensori, rifuggire i luoghi chiusi: sono delle avvisaglie per chi soffre di claustrofobia. Solo che a volte non le percepiamo.
Evitare gli ascensori, rifuggire i luoghi chiusi: sono delle avvisaglie per chi soffre di claustrofobia. Solo che a volte non le percepiamo.
La claustrofobia è una condizione molto diffusa, anche se non sempre se ne ha consapevolezza quando capita personalmente. Può succedere infatti che ci si senta sopraffatti dai luoghi chiusi, come un ascensore o addirittura un teatro e che si rifuggano determinate situazioni senza averne la reale percezione. La claustrofobia è spesso collegata all’agorafobia che rientra però nel novero delle fobie sociali – è la paura dei posti affollati e quindi qualcosa di completamente diverso.
L’etimologia del termine ha una radice latina e greca. Viene infatti da «claustrum» ossia luogo chiuso e da «fobia» cioè paura. Il claustrofobico ha quindi paura dei luoghi chiusi. Si tratta di una fobia, anzi State of Mind ne parla come di un disturbo mentale e di una fobia situazionale o ambientale. Perché è irrazionale e va a innescare dei sintomi che hanno a che fare non con la percezione fisica ma con quella psichica. I casi gravi sono diffusi in una percentuale che va dal 2 al 5% della popolazione e può insorgere anche molto presto, per esempio dai 14 anni.
Non sono state studiate delle cause univoche per la claustrofobia. Ci sono delle teorie che annoverano come il disturbo possa essere qualcosa di atavico che ha a che fare con l’istinto di sopravvivenza, mentre altre notano come le persone con disturbi di panico possano avere un’amigdala – una parte del cervello – più piccola degli altri. Ci possono essere però delle spiegazioni di tipo sociale, che hanno a che fare con la gestione dello spazio personale – come per esempio in situazioni tipo l’ascensore affollato – o con i meccanismi della percezione della paura.
Abbiamo detto che evitare certi luoghi come l’ascensore può essere un campanello d’allarme. Ma ci sono dei sintomi ben precisi che si innescano una volta all’interno dei luoghi chiusi. Il sintomo più diffuso è la sensazione di soffocare e l’iperventilazione: nei casi più lievi (e più brevi, come una galleria ferroviaria o il tragitto di un ascensore in un condominio di al massimo una decina di piani), basta una persona rassicurante accanto e magari chiudere gli occhi con un po’ di training autogeno.
Si può però anche essere colti da isteria: il caso esemplificativo è quello dell’ascensore che si ferma e noi siamo bloccati all’interno. Tra gli altri sintomi diffusi ci sono le vertigini, lo svenimento, la sudorazione, la tachicardia, la nausea.
Quali sono i luoghi più comuni in cui un claustrofobia preferisce non entrare? Sicuramente ci sono gli ascensori. Ci sono infatti delle persone che preferiscono fare anche molti piani a piedi invece che essere trasportati dall’ascensore. Per alcuni, il disturbo si attenua se ci sono altre persone, mentre per altri può essere un aggravante, dipende se si percepiscono inconsapevolmente gli altri come un eventuale aiuto o come dei “ladri di preziosa aria”.
Un altro luogo potenzialmente pericoloso per un claustrofobico è il cinema. Prima abbiamo utilizzato il termine teatro, ma durante una messa in scena esiste interazione e le luci sono ben diverse. In un cinema, le luci spente e i soli rumori provenienti da uno schermo che potenzialmente non può interagire, a differenza delle persone in carne e ossa, sono fattori che innescano il disturbo.
Poi ci sono ancora le gallerie, soprattutto per il fattore buio e in particolare quando si sta in treno. E naturalmente tutto ciò che è sotterraneo, come una catacomba, un ipogeo, un cenote o una grotta. In vacanza, in pratica, per i claustrofobici è tutt’altro che una passeggiata. Ma anche fare una Tac o una risonanza magnetica può rappresentare un ostacolo insormontabile.
Di solito vien consigliata la terapia cognitivo comportamentale, che agisce sui sintomi e può dare un grande sollievo, ridando al paziente la possibilità di una vita normale. Al di fuori di essa ci sono dei piccoli rimedi che servono a “tamponare” il problema, ma non a risolverlo a lungo termine come invece può fare la psicanalisi, che oggi si avvale di diverse tecniche e può sfruttare anche la realtà virtuale per disturbi di questo genere. Prima per esempio abbiamo parlato di training autogeno – ma anche la meditazione può aiutare, consigliata però insieme alla psicanalisi – o avere qualcuno di rassicurante accanto, chiudere gli occhi in attesa che sia tutto finito. Gli psicologi, come sempre accade con qualunque tipo di medico, sono però i nostri migliori amici in questi casi.
Vorrei vivere in un incubo di David Lynch. #betweentwoworlds
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