Alcune femministe del recente passato, come Betty Friedan, hanno sostenuto, non a torto, che per tenere sotto controllo le ambizioni femminili il patriarcato abbia sfruttato l’azione degli ansiolitici e degli antidepressivi; se questo è stato assolutamente vero per una determinata epoca, lo è altrettanto il fatto che il discorso sia decisamente più complesso, e che sia doveroso procedere per gradi al fine di comprendere davvero il ruolo di questi medicinali ieri e oggi.

A cosa servono gli ansiolitici?

Come il nome suggerisce, gli ansiolitici sono farmaci che abbassano i livelli di ansia; si differenziano dagli antidepressivi – ed è molto importante saperlo – sia per il tempo entro cui fanno effetto (i primi agiscono subito) sia perché gli ansiolitici possono dare dipendenza, tolleranza e crisi di astinenza, e infine per la durata del trattamento (per gli ansiolitici in genere dura qualche settimana, per gli antidepressivi può durare anni, e comunque quasi mai meno di sei mesi).

Riducendo in maniera molto semplicistica, si può dire che se gli ansiolitici servono a curare il sintomo, gli antidepressivi sono la cura stessa.

Gli ansiolitici più comuni

Su tutti sono naturalmente le benzodiazepine, i farmaci più usati al mondo, dopo gli anti-infiammatori. Fra loro ci sono Tavor, Xanax, Rivotril, Valium, Ansiolin, En, Frontal, Lexotan, Prazene, Control, Lorans, ma a essi si associano sia derivati benzodiazepinici (Dalmadorm, Felison, Halcion, Minias, Roipnol) che farmaci aventi composizione diversa, ma con un effetto sedativo, come Nottem, Stilnox, Buspar.

Infine, possono essere usati anche prodotti naturali come Valeriana o Sedatol.

Più d’uno fa rientrare nella categoria degli ansiolitici anche farmaci antidepressivi SSRI, ovvero inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina.

Come agiscono gli ansiolitici?

Generalmente gli ansiolitici agiscono influenzando l’attività elettrica di alcune aree cerebrali, in particolare quelle coinvolte nello sviluppo dell’ansia, della depressione e dei disturbi del sonno, e modulano l’azione di neurotrasmettitori diversi.

Le benzodiazepine, in particolare, stimolano il sistema GABAergico. Spieghiamo brevemente di cosa parliamo: il SNC (sistema nervoso centrale) ha due tipi di recettori del GABA, un γ-amminoacido principale neurotrasmettitore inibitorio del cervello.

  • GABA-A: è il recettore inibitorio del SNC, e contiene siti di legame per benzodiazepine, barbiturici, etanolo ed alcuni neurosteroidi; presenta il legame specifico con le benzodiazepine.
  • GABA-B: è presente sia in periferia che nel SNC, riduce la corrente di calcio e aumenta la conduttanza al potassio.

Effetti collaterali e controindicazioni

La prima cosa importante da tenere presente, quando si assumono ansiolitici, è che generalmente non ci deve essere un’interruzione brusca del trattamento, a meno che non sopraggiungano effetti collaterali importanti; infatti, l’interruzione brusca dell’assunzione delle benzodiazepine può provocare:

  • ansia;
  • insonnia;
  • irritabilità;
  • nausea;
  • cefalea;
  • palpitazioni;
  • tremori;
  • sudorazione.

Seppur più sporadicamente, l’interruzione dell’uso delle benzodiazepine può anche provocare dolori muscolari, vomito, intolleranza alle luci e ai suoni; ancor più raramente convulsioni, delirio, allucinazioni.

Ma quali sono gli effetti collaterali importanti che potrebbero invece obbligare a uno stop forzato del trattamento? Intanto va chiarito che essi sono dovuti a un’accentuazione degli effetti terapeutici, quindi:

  • eccessiva sedazione;
  • sonnolenza diurna;
  • debolezza muscolare;
  • stordimento;
  • confusione mentale;
  • difficoltà di concentrazione.

Va poi valutato l’impatto degli effetti collaterali rispetto all’età, essendo più alto e meno prevedibile in adolescenti e anziani. Per questo, è di fondamentale importanza ricorda che questi farmaci devono essere prescritti esclusivamente da un medico, e che egli stesso deve monitorare costantemente la situazione.

Il problema principale sta proprio nell’alto rischio di assuefazione, in particolare rispetto all’azione ipnotica, che provoca subito un grave disagio psicologico e genera sintomi fisici alla sospensione del farmaco; per questo si cerca di ridurre gradualmente il farmaco, qualora si sia nella condizione di doverlo sospendere, fino alla sua totale eliminazione.

Minori sono invece gli effetti sul piano cognitivo, che passano dalla stanchezza mentale alla debolezza muscolare; in generale, gli effetti collaterali più ricorrenti (che ovviamente variano anche in base alla dose che se ne assume) sono

  • sonnolenza;
  • riflessi rallentati;
  • confusione e disorientamento;
  • vertigini;
  • perdita di memoria.

Le benzodiazepine sono inoltre associate alla depressione, tanto che c’è chi sostiene che, in dosaggi elevati, possa aumentare pensieri o sentimenti suicidi; ci sono poi i cosiddetti effetti paradossali, ovvero che causano una forte eccitazione nel soggetto che assume questi farmaci, la quale si manifesta con

  • mania;
  • ostilità e rabbia;
  • comportamento impulsivo o aggressivo;
  • allucinazioni.

Donne e ansiolitici

Come detto, per lungo tempo questi farmaci sono stati associati alle donne, o meglio al fatto che la loro somministrazione fosse, in una certa epoca, quasi appannaggio esclusivo delle donne, e soprattutto un modo, da parte delle istituzioni, per reprimerne velleità di emancipazione e indipendenza.

Che cosa c’entrano le battaglie femministe con gli ansiolitici? Un articolo di The Vision fornisce un quadro accurato e completo della situazione, in particolare del periodo del dopoguerra, quando le donne cominciavano a rivendicare uno spazio maggiore all’interno della società, anche e soprattutto sul piano lavorativo, venendo da un’esperienza, come quella del secondo conflitto mondiale, in cui proprio loro avevano sostituito gli uomini nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro; non a caso, uno dei manifesti della svolta femminista dell’epoca è rappresentata da Rosie the riveter, figura che incarnava la nuova donna lavoratrice che non aveva paura di sporcarsi le mani e voleva essere ovviamente equiparata agli uomini.

Il periodo era inoltre propizio per alimentare le ambizioni femminili, anche per via della profonda crisi della psicoanalisi, che sosteneva, soprattutto con Freud, che il mantenimento dell’ordine sociale “fosse subordinato al contenimento dell’azione femminile entro una sfera che non le permettesse di minacciare la solidità delle ‘regole’ che governavano la ‘rinuncia maschile degli istinti’“. Le donne, insomma, dovevano rimanere “al proprio posto” e accettare placidamente i dogmi di una società spiccatamente maschiocentrica e patriarcale.

Allo stesso tempo si era sviluppato il fenomeno definito nel 1942 dal saggista americano Philip Wylie, nel suo libro Generazione di vipere, “mammismo”, in riferimento alla “personalità tipica delle madri soffocanti e iperprotettive nei confronti dei figli” che, con atteggiamenti oppressivi, ne minava la futura virilità. Gli uomini, sostenevano Wylie, crescevano convinti che occuparsi delle propri madri fosse più importante che gettarsi in questioni di maggiore rilevanza come la politica, ad esempio, e questo, per citare la psicanalista Karen Horney, avrebbe prodotto una società nevrotica.

Il mammismo e le ambizioni manifestate dalle mogli angosciavano gli uomini, che perciò pensarono bene che a dover essere curate fossero proprio le donne; e in questo contesto lo sviluppo crescente della psicofarmacologia rappresentò una vera manna dal cielo per passare il messaggio che l’ansia non fosse più da interpretare come sintomo di un conflitto interno, parzialmente inconscio e difficilmente trattabile dalla medicina, ma come condizione fisica osservabile tramite elettroencefalogramma. Tanto che fra i sintomi dell’ansia vennero inclusi vaginismo e dispareunia, e che vennero imputati a un eccesso nella produzione di serotonina.

Ma perché le donne accettavano, senza colpo ferire, di assumere ansiolitici e antidepressivi? Una motivazione la fornisce Betty Friedan, che nel suo classico del 1963 La mistica della femminilità, affronta proprio il “problema senza nome” (The Problem That Has No Name), affermando come il martellamento della stampa periodica femmminile rispetto allo stereotipo femminile da inseguire, in aperto contrasto con le aspirazioni di emancipazione, avesse prodotto una profonda crisi in molte donne, portandole a una rinuncia della propria identità solo per il senso dell’obbligo verso la soddisfazione delle aspettative sociali.

Chi non si uniformava a tali aspettative provava un senso di frustrazione e di disagio che avevano la conseguenza di produrre conflitti coniugali, disfunzioni sessuali e inquietudine nei mariti, tanto da spingere le donne a far ricorso al Valium, per allentare la “tensione psichica” o alla Mornidina, indispensabile per “tornare a preparare la colazione”.

Chiaramente parliamo di una situazione aberrante e oscena, che tuttavia, come abbiamo accennato in apertura di articolo, deve essere contestualizzata in primis, e comunque inserita in un quadro decisamente più complesso e articolato; se è vero che gli psicofarmaci sono stati, a suo tempo, manifesto del maschilismo imperante e sono quindi stati sfruttati come strumento di “dominio” per tenere soggiogate donne troppo libere (ma non solo, pensiamo agli orfani cui venivano somministrati negli istituti, o alle persone che erano obbligati ad assumerli nei manicomi, dove spesso finivano solo per la presunzione di una malattia mentale), d’altro canto è vero che, senza gli importanti step compiuti dalla psicofarmacologia, non si sarebbe giunti a trattare determinate patologie mentali come “curabili” o perlomeno come “possibili da controllare”.

Condizioni come il bipolarismo, che un tempo era sufficiente per farti finire, senza viaggio di ritorno, in un manicomio, oggi permettono, tutto sommato, a chi ne soffre di condurre una vita il più normale possibile, grazie proprio ai farmaci messi in commercio in questi anni: è estremamente chiaro e lampante leggendo, ad esempio, l’intervista a Fuani Marino, che dice

Sai quante volte me lo chiedono?
– Mi sembra che tu stia bene. Perché continui a prendere questi farmaci?
Io rispondo: per stare bene! Perché i farmaci sono il modo che ho per provare a stare bene

Esiste una linea sottile tra il proporre un resoconto dei danni fatti in passato dagli psicofarmaci usati in quanto “strumento” di controllo maschile, e il demonizzare del tutto la psicofarmacologia o i medicinali; come del resto spiega la scrittrice Julieta Escoria, autrice del libro Squilibrata

La squilibrata

La squilibrata

Il romanzo è incentrato sulla vicenda di Juliet, studentessa modello adolescente, che scopre di soffrire di un disturbo bipolare e si lascia così risucchiare da una spirale di droga e autolesionismo in cerca di sollievo, e risulta esaltante e coinvolgente, affrontando da un lato lo spirito libero adolescenziale e dall'altro alla crudezza dell'autolesionismo e della malattia mentale.
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Ho molta rabbia nei confronti dell’industria psicofarmaceutica, perché mi sento una cavia. Ho avuto effetti collaterali orribili, debilitanti e pericolosi per la vita da questi farmaci. I medici e l’industria in generale non sono così trasparenti o vigili su questi effetti collaterali come penso dovrebbero essere. D’altra parte, questi farmaci mi hanno letteralmente salvato la vita. Sono in grado di funzionare nella società e avere relazioni felici e sane grazie all’industria farmaceutica. Quindi tutta la verità è che gli psicofarmaci sono malvagi e sono anche miracoli salvavita.

Yoga e agopuntura, ecc. Sono buoni e hanno sicuramente il loro ruolo. Se una persona può stare meglio con metodi ‘naturali’, ben venga. Ma c’è un’enorme fetta della popolazione che ha bisogno di farmaci per funzionare, e dire a queste persone che lo yoga risolverà tutto è ridicolo. L’esercizio fisico, il sonno, una dieta sana, ecc. Sono tutte cose incredibilmente importanti per stare bene, ma per me lo è anche l’assunzione di 200 mg ‘nome principio attivo farmaco’ e 50 mg di ‘nome principio attivo farmaco’ ogni notte.

È quindi importante distinguere tra la disapprovazione verso l’uso che, negli anni ’50 e ’60, si è fatto degli ansiolitici e degli psicofarmaci in generale, dal ruolo che, invece, oggi possono rivestire per permettere a chi soffre di malattie mentali di affrontare con maggiore serenità una quotidianità altrimenti difficile.

Non significa rinnegarne il passato “oscuro” in un caso, non significa negarne gli effetti positivi, nell’altro.

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