Gli uomini hanno paura di essere vegani?

Il femminismo liberale vuole la carne per tutte, il maschile dominante vuole più carne e latte per sé e meno per le donne. Alla fine, tutto ciò che rimane sono solo giustificazioni amorali che non accettano di guardare in faccia la realtà. La difesa del consumo di animali è difesa del cibo dei padroni, del cibo della maschilità oppressiva, coloniale e specista. Proprio quella di cui dovremmo fare a meno.

Siamo a Bologna, in un bistró vegano. Un menù brunch e una pizzetta in arrivo, sediamo a un tavolino per due illuminato da una lampada di cartone, immediatamente accanto alla cassa. Entra una signora, alta, i capelli color lilla che le ricadono dai lati di una frangetta dritta come un rigo.

“Scusate, io sono vegana ma mio marito no. Lui può portarsi la lasagna da fuori?”. Il personale spiega che per una questione di sicurezza non possono far entrare nel locale cibo che non sanno come è stato cucinato, ma che se lui proprio non vuole ordinare nulla dal menu, possono sedersi fuori.

E così, mi ritrovo a mangiare con il viso incollato al vetro e gli occhi puntati sulla donna lilla che addenta un hamburger di tempeh e quel suo marito castano che sfila da una busta di carta una lasagna di carne animale.

Gli uomini hanno paura del cibo vegano?

Mi chiedo, perché gli uomini abbiano così paura del cibo vegano e mi rispondo pensando allo stereotipo che gli viene insegnato a inseguire. Questo caso strano, che non fa certo la scienza, è corroborato da una forte statistica che riconosce il fatto che tendenzialmente le persone uomini cisgender tendono a essere più reattivi e respingenti rispetto al cibo vegano. Uno studio condotto da Rosenfeld e Tomiyama ha analizzato come i ruoli di genere tradizionali modifichino l’approccio al vegetarianismo (stile di vita che comprende l’uso di derivati animali). Gli uomini sono meno propensi ad avvicinarvisi e a rinunciare ad alcuni tipi di carne animale,  ovvero alla  carne di vacca e pollo. La carne è così connessa al sistema sociale da essere un elemento identitario.

Carol J. Adams ha ampiamente dimostrato nel suo Carne da Macello quanto i processi di oggettivazione delle donne siano affini a quelli subito dalle bestie, rese carne per poterne usufruire in maniera frammentata. Nel maschile egemone (definizione con cui Raewyn Connell indica lo standard maschile più diffuso) il consumo di cose e individui è un forte elemento di espressione di potere.

Prendere un individuo e disporne – dopotutto – significa avere il potere di farlo.

Perciò la categoria umana che gode di maggiori tutele, ma soprattutto che ha un accesso esteso al potere, dimostra questo suo status e lo conferma anche attraverso il consumo del vivente. Mangiare la carne, spesso e purtroppo, diventa un’espressione di personalità, quindi un rinforzo dei comportamenti di genere.

Braccio di Ferro, spinaci e la carne di Poldo

Tornando agli stereotipi, non posso che pensare a Braccio di Ferro. Quando ero piccola, questo marinaio saltellava sul mio televisore e contrastava le ingiustizie (incarnate nel suo brutale nemico Bruto) ingurgitando scatolette di spinaci. Ed effettivamente gli spinaci sono un alimento ricco di carotenoidi, di acido folico, vitamina C, proteine e ferro. Componenti plausibilmente associabili alla forza e alla salute, rappresentavano, però, anche qualcos’altro.

L’amico di Braccio di Ferro, Poldo si nutriva esclusivamente di hamburger. Era simpatico ma incapace di contrastare Bruto, che, invece, era rappresentazione perfetta del maschile egemone, consumatore di carne intenzionato a rapire Olivia contro la sua volontà.

Braccio di Ferro ingollando compatte lattine di spinaci sconfiggeva il male di Bruto.

Il cartone voleva invogliare al consumo di spinaci? Essere educativo? Probabile, ma ciò che spicca è come e quanto l’alimentazione maschile sia connessa all’espressione di forza bruta, a sua volta presentata come unica forma di risoluzione dei conflitti. Poldo, disegnato seguendo stereotipi che infantilizzano e depotenziano i corpi grassi, non aveva accesso alla forza violenta. Bruto e Braccio di Ferro invece sì. E se una volta (Braccio di Ferro è arrivato sulla carta la prima volta nel 1929, non a caso periodo di forti contrazioni economiche, a cavallo tra i due conflitti mondiali del ‘900) il maschile vittorioso poteva alimentarsi solo a verdure, cosa che oggi è praticamente inimmaginabile.

Produzione in massa e panacea per i poveri

A partire dal secondo dopoguerra, la macchina fordista dell’allevamento intensivo ha trasformato la carne da bene di lusso – cibo da aristocratici – in bene per le classi medie e progressivamente per quelle operaie. Carne che, una volta prodotta in massa, doveva essere anche venduta. Quindi, quale miglior modo di unire il suo valore simbolico a quello della maschilità dominante? Se già essa era uno status symbol, percepita come un salto di qualità sociale, perché non rinforzare l’idea che il maschile forte – siamo pur sempre nel periodo post bellico, momento in cui le morti sono giustificate con gli eroismi – e difensore avesse bisogno della carne per esser tale? Da qui la convinzione culturale che il maschile debba consumare la carne per essere virile.

La carne come rito della forza

La fusione tra aspettative sociale e comportamenti si realizza ogni giorno nella serie di azioni che compiamo convinti che siano esattamente ciò che dobbiamo fare in quanto donne o uomini. Nella messa in scena non mancano certo le scenografie e i riti, ed è qui che l’abuso animale viene imperniato al genere. L’uso delle bestie come cibo, vestiario, svago, sostegno emotivo e psicologico residuo permette di offrire una specifica immagine di sé che, il più delle volte, riflette ciò che il contesto sociale già si prefigura.

Infatti, la carne e i derivati animali sono fortemente legati alla classe sociale. Ora che anche i ceti più poveri sono destinatari della produzione carnea e ovo latto casearia, l’acquisto e l’uso del cibo animale racconta un desiderio di affermazione e di accesso a ciò che prima non era nemmeno pensabile. Nel consumo dell’altro (dell’animale in questo caso)  c’è un’affermazione di potere e controllo.

Infatti, non siamo estranei alla distruzione dell’altro come affermazione di superiorità, e non è un caso che l’aumento della produzione di carne sia giunto proprio dopo conflitti di portata mondiale. Additare l’altro come inferiore, in fin dei conti, permette di definire un superiore. Ed è grazie all’invenzione del consumo animale come necessità assoluta – mescolato all’antropocentrismo delle religioni del libro – che la specie umana riesce a considerarsi migliore di tutte le altre.

Yulin e la carne di cane

Basterebbe pensare al festival di Yulin, che ogni anno raccoglie indignazione anche da parte di chi vegano non è. Di base, tra una vacca è una cane c’è una differenza di specie, ma non è questo il problema. Si tratta del valore attribuito alla relazione tra cane e uomo in Occidente e della dequalificazione della vacca a mero pezzo di carne o fabbrica del latte e di carne di cucciolo.

Il doppio standard sposa lo specismo e si innesta nel maschile, a sua volta definito sulla base di invenzioni che ne attestano la superiorità. Criticare il consumo di un’altra carne da parte di una cultura è una messa in atto della prosopopea specista che incontra quella suprematista. Di base, l’indignazione si accompagna ad un malriposto senso di superiorità, che arriva a giustificare il razzismo verso le persone cinesi.

Di nuovo, un uomo al ristorante

Questa volta siamo a Roma, in un ristorante indiano vegetariano in cui la maggior parte dei piatti sono vegani. È piccolo e accogliente, le stoviglie sono di cartone, il personale davvero entusiasta. Sediamo e mangiamo con gusto. Dietro di me prende posto una coppia. Lei ordina qualcosa da mangiare, lui no. Perché non c’è carne.

“Perché non c’è carne?” Chiede. “Sta roba io non la mangio” precisa.

Si guarda intorno, osserva gli altri due uomini nel ristorante intenti a mangiare. Assume uno sguardo scettico, sprezzante a tratti.

Lui digiuna o mangerà più tardi, perché la sua maschilità fragile gli impedisce di mangiare verdura e tofu. Gli suggerisce che se mangia vegetali compie un atto femmineo.

Il maschile, è una costruzione sociale. Come pure il bisogno di mangiare frammenti di corpi animali o secrezioni dei loro corpi, esasperate per esigenze produttive. Sono le fabbriche, a essere artificiali e artificiosi, non il matar tofu caldo appena servito. Il maschile delle performance ha sempre bisogno di mantenere salde le gerarchie sociali e lo fa a fronte della maggior parte delle sofferenze e delle disuguaglianze di questo mondo, quella animale compresa.

Il maschile ha paura del cibo vegano

Gli uomini hanno paura del cibo vegano? Per quanto provocatoria, la domanda ha una risposta statistica. Ne hanno più paura delle donne. Perché hanno imparato a temere di essere affiancati e paragonati a loro e l’alimentazione è un simbolo. Il terrore di essere svirilizzati e di perdere il posto di preminenza viene innestato nell’educazione maschile di genere sin dall’infanzia.

I vegetali sono femminilizzati, è stata attribuita a loro una considerazione inferiore rispetto alla carne, come fossero alimenti di serie b, importanti certo, ma come contorno, non come portata principale. Gli uomini assorbono presto, prestissimo, la paura di essere associati alla debolezza che lo stereotipo fa ricadere nel femminile e in tutto ciò che, costrutti di genere alla mano, lo riguarda.

Gli uomini hanno paura del cibo vegano per lo stesso motivo per cui un uomo alla tavola domestica vuole essere servito per primo, non si alza per sparecchiare e non cucina nulla – se non il brasato.

Vivono con il terrore che smettendo di fare del male, imporsi e pretendere di dominare, possano essere riconosciuti anche dagli altri come pari. E che come tali, non abbiano diritto a diritti maggiori.

Perciò, sì, la maggior parte degli uomini ha paura del cibo vegano. E questo si trasmette  anche alle donne, che spesso cercano di non essere buttate in fondo alla piramide gerarchica. Infatti, essendo il consumo delle bestie un esercizio di potere, chi è oppresso ambisce a prendervi parte per sentirsi ed essere riconosciuto superiore a qualcuno.

Uomini vegani

Conferma di questo comportamento acquisito è la reazione di fronte a un uomo vegano. I carnisti al tavolo si pongono in una posizione di superiorità, a testimonianza di quanto di sé ripongano nel consumo di cibo animale. Scattano le prese in giro, le frecciatine e le filippiche sulla salute e la vitamina B12. Il tentativo è quello di togliere lo scettro della virilità agli uomini vegani, in modo da evitare di dover fare i conti con la realtà: ovvero che il genere è un’invenzione e che la crudeltà alimentare non è sintomo di forza, piuttosto il contrario.

Le persone vegane, infatti, non sono da santificare  perché esistono vegani drammaticamente sessisti o razzisti. Ci sono però persone vegane e femministe, persone che nonostante le aspettative di genere, sono disposte a guardare il reale stato delle cose e agire di conseguenza. Anche quando significa andare contro il proprio paniere di privilegi. Ed è per questo che c’è un’avversione verso il veganismo, perché impone di smettere di vedere il cibo come qualcosa di innocuo e spinge ad osservare, chi c’è nel piatto.

Donne vegane

Se gli uomini vegani sono sminuiti, le donne vegane sono attivamente dequalificate nelle loro scelte e, con una frequenza allarmante aggredite verbalmente. Dai discorsi paternalistici sulla caccia, la forza maschile e le presunte ragioni biologiche che rendono il consumo di carne fondamentale (per gli uomini soprattutto, pare che molti siano convinti di avere processi digestivi unici in quanto maschi) alle battute a sfondo sessuale sulla carne, fino alle minacce di correzione del comportamento per mezzo della coercizione, a tavola siamo considerate uno scomodo bersaglio.

E le nostre ragioni sono sempre richieste, quasi dovessimo giustificare anche in quel caso la nostra esistenza. Interrotte e tacciate di estrema sensibilità (nonostante essere vegani sia una scelta molto razionale, dettata dalla consapevolezza rispetto a cosa realmente è un trancio di bestia nel piatto o il caglio del latte materno di una vacca) le donne vegane si confrontano quasi su base quotidiana con il maschile machista carnista intenzionato a convertirle sulla base di ciò che ritiene essere giusto: uccidere e consumare gli uccisi per sentirsi più forte.

Dunque, prosegue la giostra della sofferenza, della tortura, della distruzione ambientale, dello sfruttamento umano e animale, e non solo per esigenze ed educazione del capitale, ma anche perché nessuno vuole essere l’ultimo. Il femminismo liberale vuole la carne per tutte, il maschile dominante vuole più carne e latte per sé e meno per le donne. Alla fine, tutto ciò che rimane sono solo giustificazioni amorali che non accettano di guardare in faccia la realtà. La difesa del consumo di animali è difesa del cibo dei padroni, del cibo della maschilità oppressiva, coloniale e specista. Proprio quella di cui dovremmo fare a meno.

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