Soffri di solitudine buona o cattiva? Come capirlo e cosa fare
La solitudine rappresenta qualcosa con cui facciamo i conti ogni giorno. Ma come funziona? Possiamo "dosarla"?
La solitudine rappresenta qualcosa con cui facciamo i conti ogni giorno. Ma come funziona? Possiamo "dosarla"?
L’uomo è un animale sociale diceva Aristotele. Questo significa che ognuno di noi è destinato in qualche modo a interagire con gli altri. Ma non sempre questo passaggio è facile, tanto che molti artisti nel tempo sono passati alla storia, oltre che per le loro opere, anche per soffrire di agorafobia, che è un disturbo legato non solo agli spazi aperti, ma anche alla presenza in luoghi affollati.
Ma al tempo stesso, la solitudine può rivelarsi negativa. Il termine deriva da una parola latina che ha la sua radice in «solo» e nel tempo ha assunto significati differenti, anche positivi. Solitudine spesso significa «pace», cioè essere liberi da qualunque conflitto. Ma non sempre è così. E infatti la solitudine, alla nostra società, fa paura. Soprattutto quando parliamo di donne.
Avete mai sentito parlare positivamente di “uomini soli” – no, non la canzone dei Pooh che ha vinto Sanremo – o di donne sole? Spesso ci capita di ascoltare commenti, anche involontari, a proposito di persone che hanno scelto di non avere un compagno di vita, o per le quali semplicemente non è successo di trovare la persona giusta. Queste persone, soprattutto le donne, etichettate come «zitelle» o peggio, sono viste come anormali, innaturali. Si tratta di un retaggio atavico: l’essere umano, come tutti gli esseri viventi era, agli albori della sua evoluzione sulla Terra, dotato di un istinto di conservazione della specie. Da questo retaggio deriva la paura della solitudine che qualcuno nutre, ma che non ha più senso: viviamo in un mondo sovrappopolato, ci sta, quindi, che più di qualcuno decida di non riprodursi, di non avere un compagno accanto.
Per quanto lottiamo per stare insieme agli altri, non è detto che incontriamo persone come noi. E questo fenomeno è direttamente proporzionale alla propria sensibilità e intelligenza. Ognuno ha una serie di caratteristiche specifiche che non solo sono proprie, ma rendono ogni essere umano unico. Sicuramente c’è qualcuno che è identico a noi, ma la legge della probabilità dice che è molto remoto che riusciamo a incontrarlo nell’arco della nostra breve vita. In fondo, di fronte alla morte, al proprio ineluttabile destino, ognuno è solo. E la paura della solitudine non fa altro che aumentare i compromessi che ognuno ricerca durante la vita, ed equivale ad annullare tutto di se stessi: non è certo un bene.
La solitudine e la depressione possono essere fortemente legate in un circolo vizioso, soprattutto quando si è anziani. Può accadere che chi soffra la solitudine a un certo punto si ritrovi a fronteggiare la depressione, ma anche che chi già soffre di questo male possa stagnare nella solitudine più nera. In questi casi, il primo passo è ammettere di avere un problema e quindi cercare un aiuto terapeutico. Lo psicologo si può rivelare il nostro migliore amico: non aspettiamo oltre e rivolgiamoci a lui.
La solitudine va combattuta in due casi: o quando rischia di essere un vicolo cieco, o quando si può evolvere causando o peggiorando la depressione. Nel primo caso, ci sono buoni margini per uscirne anche da soli. Intanto si deve comprendere che appunto ci sono dei compromessi sociali su cui possiamo tranquillamente sorvolare – ogni persona avrà i suoi. Selezionare è un punto importante: significa selezionare amicizie, situazioni, modi e tempi in cui stare con gli altri. È un po’ difficile da fare in un tradizionale ambiente di lavoro, ma lì è meglio lavorare sul compromesso, su cosa si può accettare e cosa no. Tutti abbiamo inoltre delle passioni che possono avere un risvolto sociale. Ci piacciono i fumetti? Proviamo a recarci alle fiere di settore. Amiamo il cinema? Sforziamoci di andare a un festival, anche a uno poco importante a due passi da casa. Ci piace il cibo o il vino? Frequentiamo per quanto possibile ristoranti o sagre. Trovare un buon amico può essere un punto di inizio. Non deve essere qualcuno come noi. Non deve necessariamente comprenderci a un livello profondo. Dobbiamo solo sentirci a nostro agio con lui, a trovare la serenità.
La solitudine non è un male assoluto, può essere nostra amica. Dipende da come la si vive e da quanto la si vive. Ognuna di noi ha bisogno dei periodi di introspezione, per riflettere e prendere decisioni importanti. Anche le religioni, che sono improntate sulla socialità, prevedono dei periodi di meditazione, che sono essenzialmente momenti di introspezione profonda. Ma la solitudine è come una droga e dobbiamo cercare di non stagnare in essa. Sì, è bello ritagliarsi un cantuccio comodo, ma non è possibile neppure isolarsi da tutti. È in questo caso che la solitudine diventa nemica.
Accade per esempio in Giappone, con il fenomeno degli hikikomori. Gli hikikomori sono persone che si sono ritirate a vita privata perché avvertono il peso della competizione, soprattutto in ambito lavorativo. Il fenomeno, che desta molta paura, dà vita a dei veri e propri fantasmi, che “esistono” – quando se la sentono – solo dietro lo schermo di un computer.
La solitudine è qualcosa di talmente tanto comune da essere fortemente presente nella cultura pop, dai fumetti alla musica, al cinema e ovviamente ai libri. Uno dei meriti dell’aver ritratto la solitudine come alienazione, soprattutto tra i giovani, e come incomprensione va allo scrittore Bret Easton Ellis, che nei suoi romanzi ha mostrato come nessuno conosca mai qualcuno davvero e profondamente. La verità è che noi pretendiamo un po’ troppo dagli altri. Pretendiamo comprensione, pretendiamo di essere uguali, ma anche avere un rapporto egualitario in una relazione non vuol dire essere uguali.
Anche Anna Llenas lo spiega bene in un pop up per bambini, “Mi piaci (quasi sempre)“. Il volumetto racconta dell’amore tra un onisco e una lucciola per far comprendere anche ai più piccoli come siano le piccole differenze e i compromessi reciproci (ma non troppo grandi) a mandare avanti un amore. Di solitudine parla fondamentalmente il romanzo moderno per eccellenza, “Il giovane Holden” di J.D. Salinger, che narra di un ragazzino che scappa da casa perché non si sente compreso dai genitori, dalla scuola, neppure dai suoi amori giovanili.
Ma se c’è un libro che può far comprendere come la solitudine non sia negativa se abbracciamo l’introspezione è “Alta fedeltà” di Nick Hornby. In esso, il protagonista, mollato dalla fidanzata e con un lavoro insoddisfacente sebbene circondato da ciò che ama – i dischi – avvia un percorso di comprensione del sé. È forse colpa mia se le donne scappano? È questo che si chiede. Ma anche: la solitudine, la malinconia e la sofferenza vanno sempre a braccetto? E infine: come posso fare per restare in una relazione che mi soddisfa senza farla fallire? In questo romanzo ci sono tutte le risposte. È una sorta di starter pack contro la solitudine.
Vorrei vivere in un incubo di David Lynch. #betweentwoworlds
Cosa ne pensi?