Una delle ultime narrazioni relative all’esclusione di un bambino autistico da qualcosa riguarda una scuola. Un alunno di una scuola elementare è stato escluso dalla recita scolastica perché ancora non c’era stata la diagnosi definitiva di autismo e quindi non gli era stato assegnato l’eventuale insegnante di sostegno.

Non mi dilungherò sulla notizia, perché ce ne sono purtroppo varie di analoghe: bambini autistici che non vengono compresi a scuola, che non vengono invitati alle feste di compleanno o che vengono snobbati quando la festa la organizzano loro.

Qualche anno fa accadde a una vicina di casa. Suo figlio è un autistico con un profilo a basso funzionamento. Lei andò a vederlo per la recita di Natale, scoprendo che il bambino non sarebbe mai salito sul palco. Temo che le vicende del genere siano molte di più di quelle che ci arrivano con la cronaca e credo che siano coraggiose le madri che scelgono di parlarne apertamente. Anche se alla fine non so quanto cambi: quando leggo queste notizie provo un profondo dispiacere, ma è tutto diverso quando capita a te in prima persona.

A noi è capitato, proprio l’anno scorso. Francesco ha iniziato a frequentare la scuola pubblica al mio paese. Dalla prima settimana ho iniziato a subire pressioni da una sua maestra, che a un certo punto ha iniziato a invocare i servizi sociali, benché le avessi detto che non solo eravamo in lista d’attesa al Centro Territoriale per l’Autismo – una delle organizzazioni pubbliche che può rilasciare una diagnosi – ma anche che, intanto, come aveva consigliato una neuropsichiatra, il bimbo stava facendo terapia cognitivo-comportamentale. Ed è arrivata perfino a chiedere a una collega se l’anno successivo si fosse presa Francesco in classe – come fossimo al calcio-mercato.

Alla fine ho pensato di rivolgermi alla dirigente scolastica, ma ho capito di non essere degna di ascolto per lei. Intanto, l’istituto ha organizzato una recita di Natale. Francesco, all’epoca, aveva fin lì imparato ancora davvero poco – se lo vedeste da quando ha iniziato a seguire i principi di teoria Aba, non lo riconoscereste – ma sarebbe stato bello che fosse sul palco anche lui con gli altri, neppure loro impeccabili. Invece no, lui non c’era, era lateralmente al palco, seduto sulle gambe di un’altra insegnante che non avevo mai visto.

Ci ripenso in questi giorni, mentre riguardo le foto scattate per la gita scolastica organizzata dal nuovo istituto – nel paese in cui ci siamo trasferiti – al “villaggio di Babbo Natale”. Io vedo un bambino felice, che gioca insieme agli altri, che svolge le loro stesse attività. A volte mi chiedo: è perché la sua nuova scuola è una privata? È perché le maestre si avvalgono del metodo Montessori? È perché collaborano costantemente con le terapiste di Francesco?

Temo che la ragione di questa diversità sia solo una questione di sensibilità. I bambini non lo sanno, non lo capiscono perché vengono esclusi. E non lo capiscono i loro compagni.

Se dovessi dire cosa ci sia stato di buono nell’esperienza del mio bimbo con la scuola frequentata l’anno scorso, vi direi solo dei nomi di alcuni dei suoi compagni: Martina che sotto sotto era innamorata di lui, Alice che invece era una specie di fidanzatina, e poi Oscar che non lo lasciava un attimo, lo aiutava ad allacciarsi le scarpe o a pulirsi il nasino, o Samuele che lo prendeva a scappellotti (come faceva con tutti i compagni del resto) salvo poi accarezzargli il volto e chiedergli scusa.

A volte finisco per pensare che le giovani generazioni siano sempre meglio di noi. E che forse dovremmo conservare quel candore di quando eravamo bimbi a nostra volta. Perché i più piccoli non capiscono la diversità – quelli sono costrutti da grandi – o forse la capiscono ma per loro conta poco. Conta meno di una palla di plastilina rinsecchita o una macchinina senza ruote.

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