Uno dei grandi dilemmi, quando si ha un figlio autistico e lo si vorrebbe proteggere, è: come reagiranno le persone nel saperlo?

Non posso dare una risposta universale a questa domanda, perché ho deciso che, di volta in volta, sceglierò a chi dirlo.
Per il momento sceglierò io, nel suo percorso di crescita lo faremo insieme e un giorno, spero non lontano, lui farà da solo.

Dimenticate tutto quello che pensate di sapere sull’autismo, quello che si vede nei film o in quella serie deliziosa che è Atypical.
Si chiama sindrome dello spettro autistico per una ragione: difficilmente troverete un autistico uguale a un altro. Ognuno ha dei sintomi specifici – per mio figlio sono per esempio il ritardo nel linguaggio e la presenza di una stereotipia – e per ognuno questa condizione rappresenta un ostacolo che può assumere diverse dimensioni.

Con i vecchi amici, quelli veri, non è difficile parlarne. A scuola la questione è più spinosa.
Francesco ha frequentato per un anno una scuola pubblica nel mio paese d’origine, mentre faceva i test e riceveva una diagnosi. Le sue maestre, la dirigente e molte mamme non si sono dimostrate all’altezza di gestire una qualunque diversità – che fosse la disabilità di mio figlio o la nazionalità di qualche altro alunno. Per fortuna i compagni di scuola erano un altro paio di maniche: hanno accolto il mio bimbo, l’hanno guidato, gli hanno voluto bene.

Ho avuto paura che tutta l’affezione nei suoi confronti potesse finire. Come quando si legge su un giornale che alle feste di compleanno dei bambini disabili non si presenta nessuno. Quando ci siamo trasferiti, alla fine dell’anno scolastico, ho trovato una scuola privata con metodo Montessori e un ambiente completamente differente. Qui le piccole diversità vengono valorizzate, i bambini effettuano degli screening con terapiste Aba – che è la terapia i cui principi Francesco affronta tre volte a settimana – e molti degli insegnamenti assomigliano alle attività che si svolgono durante la terapia vera e propria.

Ancora però non me la sento di parlare apertamente con tutti dell’autismo di Francesco. Credo che una delle ragioni sia mia madre: ancora non accetta la diagnosi, mi dà la colpa di tutto – e i primi giorni mi ha fatto molto male – e pensa che parlare di autismo significhi mettere un bersaglio sulla fronte del piccolo.

Eppure mia madre non è stata sempre così. Io sono nata con un nevo gigante sul volto, eppure lei mi ha sempre mostrata in pubblico senza vergognarsi e dopo mi ha insegnato a fare da sola, a rispondere a tono, a non badare ai giudizi della gente. È quello che vorrei fare con il mio bambino, aiutarlo a non badare ai giudizi e ai pregiudizi della gente. Ma come si fa quando il pregiudizio è nella mia casa, quando mia madre, sua nonna, non accetta la sua disabilità, la sua diversità?

Attenzione, non è che lei non gli voglia bene. Temo anzi che gli voglia troppo bene.
Eppure non riesce ad accettare la diagnosi, a far pace con il fatto che ha un nipote autistico e tutto quello che possiamo fare è cercare di dargli il meglio in termini di affetto, di terapie, di stimoli. Per mia madre, mio figlio è solo un bambino iperintelligente e un po’ pigro.

L’ultima volta che siamo andati a trovarla, dato che ora viviamo ad alcune centinaia di chilometri di distanza, lui si è commosso nel vederla. È anche quello un segno che la terapia sta funzionando. La comunicazione passa su molti livelli: c’è quello verbale, che lui sta implementando moltissimo, quello non verbale e quello emotivo. Lui sta andando alla grande in tutti i livelli.

A volte la consolazione, rispetto a questo momento di negazione di mia madre della disabilità di mio figlio, è che, se non altro, i progressi riesce a notarli anche lei.

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