C’è un’espressione che sento usare agli altri genitori di bambini con autismo, il «dopo di noi». È la prospettiva futura dei propri figli quando noi non ci saremo più o, da anziani, quando non potremmo essere più autosufficienti per aiutarli a vivere.

Da quello che vedo, con un bambino ad alto funzionamento, si lavora sull’indipendenza. E ci sono bambini che per l’indipendenza ci sono portati. Francesco è uno di questi, è abbastanza autonomo in maniera completamente naturale. Perché preferisce fare le cose a modo suo, chiede aiuto solo se non riesce a fare qualcosa da sé.

La nostra “vecchia” neuropsichiatra non la pensava così. In una delle sue frettolose visite, in passato, si è limitata a farmi delle domande: quando è avvenuto lo spannolinamento? Mangia da solo? Si lava da solo? E mi ha lasciata a me stessa, scrivendo in un biglietto per le terapiste di «lavorare sulle autonomie», come se non si potesse essere un po’ meno generici. Con la nuova neuropsichiatra le cose sono infatti un po’ cambiate, perché lei comunica direttamente con le terapiste per i dettagli tecnici e le terapiste ci fanno il parent training dopo quasi ogni seduta.

Il parent training consiste per lo più in azioni da fargli fare. È tutto molto pratico. La sola emozione che ci ritroviamo a gestire è la frustrazione in realtà: parliamo con Francesco, gli spieghiamo che tutto si può aggiustare, e alla fine lui si calma e ricomincia a fare quello che stava facendo prima che la frustrazione lo sopraffacesse.

In fondo, sul lato pratico non ci sono grossi problemi: Francesco si muove all’interno della nostra casa come faremmo noi. Se ha fame mangia (ma se vuole qualcosa di più di un biscotto o di una banana mi dice «il mio pancino ha tanta famina»), se deve andare in bagno ci va (ma se è quella grossa ha ancora bisogno di aiuto e ce lo chiede), si spoglia e si veste da solo (non sempre perfettamente) e fa il bagnetto da solo con la mia supervisione.

Stare in quarantena ha implementato la sua capacità organizzativa. A volte fa finta di non saper fare le cose e mi chiama quando deve finire un puzzle o gli è crollato il castello («ho un gioco per te», «aiutami», «mamma/papà, vieni», «si è rotto», «non funziona») o non trova il tappo dei pennarelli. A volte il suo bisogno di essere coccolato è più palese e me lo domanda. Così come esprime il caldo o il freddo, il dolore se scivola mentre corre o cade dalla bicicletta giù in cortile.

Quando la vita era normale, prima del coronavirus, c’erano giorni che non lo vedevo tra le 9 e le 18 (prima a scuola e poi in terapia). Adesso sta sempre con noi, tranne quando si addormenta nel suo lettino con Tigro il peluche. Nelle ultime settimane è rientrato almeno in terapia e mi fa piacere perché a me sembra che abbia fatto molti progressi, con il linguaggio e con l’indipendenza, ma voglio sapere cosa ne pensano le terapiste.

La separazione mi fa paura. Adesso è per la terapia, poi sarà per la scuola. È molto probabile che lui ce la farà meglio di me, perché in fondo è sempre stato così: è andato a scuola e in terapia ogni volta di buon grado e gli amichetti gli mancano molto. Però mi chiedo se l’indipendenza, che si crea in vista del «dopo di noi», può ridursi a una semplice sequenza di azioni quotidiane, lavarsi, vestirsi, mangiare da solo? O il «dopo di noi» sarà qualcosa di durissimo sul piano affettivo?

Ci sono bambini, con autismo e non, che non riescono a esprimere le emozioni. Il mio riesce a esprimere quelle fondamentali (e con la gioia si fa aiutare dalla sua stereotipia). E la vita di un bambino così piccolo, in una casa in cui è amato e accudito, è in gran parte di gioia. Ma cosa accadrà alle loro emozioni quando noi non ci saremo? Ci occupiamo del lato pratico, di aiutare i nostri figli a essere indipendenti, ma in alcuni casi il supporto è più morale che materiale.

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