Negli Stati Uniti Amy Schneider non è diventata famosa solo per aver vinto una cifra enorme a un quiz show, Jeopardy! (parliamo di  1.382.800 dollari), ma soprattutto perché ha spinto ad accendere i riflettori su un tema spesso molto sottovalutato che riguarda la disforia di genere e il percorso di gender affirming, ovvero la disforia vocale.

Schneider, nel corso della sua lunga esperienza al quiz, ha avuto a che fare con moltissimi ammiratori ma anche, inevitabilmente, con i detrattori e con gli haters, pronti a puntare il dito sul suo essere una donna transgender; commenti e provocazioni a cui lei ha sempre risposto con l’intelligenza di cui ha mostrato di essere ampiamente dotata, come in questo tweet.

Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno trovato il tempo, in questo periodo di vacanze, di contattarmi e spiegarmi che, in realtà, sono un uomo – ha scritto ironicamente – Ognuno di voi è la prima persona in assoluto a farmi notare questa cosa, che non mi era mai passata per la testa.

Schneider, in alcune dirette Instagram, ha anche spiegato di aver passato un periodo in cui ha letteralmente odiato la sua voce, tanto da pensare di parlare in falsetto pur di essere ritenuta credibile; ma poi ha capito che la sua poteva essere un’ottima e veritiera rappresentazione delle persone transgender, ed evidentemente non è la sola a pensarlo, visto che dopo la sua partecipazione a Jeopardy! ha ricevuto un’offerta dall’agenzia di scouting CAA, spiegando anche di essere attirata dal mondo della recitazione e del podcasting.

“Ho una voce più femminile quando voglio, davvero – ha detto – e avevo in qualche modo pianificato di usare quella voce in TV, ma in qualche modo mi sembrava falso e non autentico. Mi sono anche detta ‘Non ho bisogno di questa cosa in più a cui pensare’ e, di conseguenza, questo mi ha aiutato a superare gran parte della disforia. Ascoltandomi alla TV nazionale giorno dopo giorno, mi sono abituata. Le donne trans che guardano possono vedermi con la mia voce così com’è e vedere che la accetto”.

Quello di Amy Schneider è sicuramente un ottimo esempio, e soprattutto ha permesso di portare alla luce una tematica che spesso rimane sommersa, quando si affrontano discorsi legati ai percorsi di gender affirming, che è appunto quello della disforia vocale.

A più o meno tutti/e noi sarà capitato di riascoltare un messaggio vocale che abbiamo registrato e di non apprezzare la nostra voce. Anche questo è un fenomeno che ha basi psicologiche fondate, che ovviamente si amplificano nel caso in cui la voce che abbiamo non rappresenti l’identità di genere cui sentiamo di appartenere.

Perché non ci piace la nostra voce?

Ci sono svariate ragioni per cui non amiamo la nostra voce, se la sentiamo: il motivo è che la voce ascoltata dalle altre persone attraversa solo l’aria prima di raggiungere le orecchie, mentre i suoni che noi stessi emettiamo attraversano anche tessuti, ossa, laringe e coclea, l’organo sensitivo dell’orecchio.

Le onde sonore prodotte hanno frequenze diverse se attraversano solo l’aria o un mezzo solido, motivo per cui la voce ha un timbro diverso. Se la riascoltiamo al registratore, poi, dobbiamo renderci conto che questo altera, seppur minimamente, la voce, visto che “traduce” il suono da onde sonore meccano-elastiche a onde elettromagnetiche, mentre nel processo dell’ascolto avviene esattamente il contrario.

Ci sono però anche questioni psicologiche che spiegano il fenomeno: può capitare di percepire la nostra stessa voce come estranea, non familiare, nello stesso modo, ad esempio, in cui ci osserviamo in una fotografia quando invece siamo generalmente abituati a farlo attraverso uno specchio.

Cos’è la disforia vocale

La disforia vocale è invece una problematica che interessa le persone con disforia di genere; in generale, il percorso di transizione, con la terapia ormonale sostitutiva (TOS) o gli interventi chirurgici riescono a incidere poco sulla percezione della persona interessata rispetto alla propria voce, benché spesso abbiano un certo effetto.

Questo, chiaramente, rischia di esporre ancor di più queste persone al rischio di episodi transfobici, o ad autoisolarsi perché incapaci di accettare una caratteristica che, naturalmente, è fisiologica e spesso non si può del tutto correggere. Talvolta il grado di non accettazione della propria voce può essere così alto che chi soffre di disforia vocale arriva a danneggiare i muscoli della laringe per via dello sforzo di mutare la propria voce. Avere una voce che non corrisponde al proprio genere può causare stress e infelicità, ansia o depressione, ed è quindi un aspetto da non sottovalutare quando si affronta la tematica della disforia di genere.

“Questa paura di parlare con gli altri ostacola davvero la vita delle persone – spiega lo psicologo Ruben Hopwood, coordinatore del programma di salute transgender presso la Fenway Health di Boston – Non è solo scomodo, è debilitante e può essere pericoloso”

C’è anche una differenza sostanziale tra FtM e MtF: mentre gli uomini transgender notano generalmente effettivi mutamenti della voce, per via del testosterone che allunga e ispessisce le corde vocali, portando il tono del parlato ad abbassarsi di circa un’ottava, gli estrogeni non hanno questo stesso effetto sulla laringe, quindi le donne transgender difficilmente sentono mutamenti significativi. Detto ciò, occorre anche precisare che non tutti gli uomini transgender intendono assumere testosterone, quindi non dobbiamo considerare la scelta come scontata.

Alcune donne transgender, invece, ricorrono alla chirurgia vocale, che accorcia le corde vocali, stringe la cartilagine o solleva la laringe: parliamo però di operazioni rischiose, che nella migliore delle ipotesi richiedono una terapia vocale pre e post operatoria e i cui risultati sono, naturalmente, irreversibili. Per questo spesso le implicazioni psicologiche giocano il ruolo più cruciale nella disforia vocale, contribuendo a rafforzare discriminazioni che, ovviamente, non rendono le persone con disforia di genere sicure di sé e pronte a muoversi nel mondo con naturalezza e serenità.

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