I casi di malattia di Crohn continuano a crescere. Questa è una certezza, e non è una novità. Basta una rapida ricerca su Google per rendersi conto che, almeno dal 2017, periodicamente qualche – raro – articolo rilancia la notizia: “Malattia di Crohn e colite ulcerosa: preoccupa l’aumento dei casi”. Ma ci preoccupa davvero? Se così fosse, non dovremmo parlarne di più?

Siamo davanti a una patologia cronica e in molti casi debilitante che colpisce solo in Italia almeno 50.000 persone secondo AMICI Onlus, Associazione Nazionale per le Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino, eppure il fatto che l’incidenza di questo disturbo sia in aumento in tutto il mondo – anche nei paesi in via di sviluppo, dove finora si presentava raramente – sta passando sotto silenzio.

Non è chiaro perché i casi stiano aumentando, ma gli esperti ipotizzano che la sua ascesa sia in qualche modo legata all’industrializzazione e a una dieta in stile occidentale ricca di carni e cibi trasformati. Alcuni suggeriscono un legame con la vita in un ambiente eccessivamente igienico che potrebbe indurre il sistema immunitario ad attaccare i tessuti sani del corpo anziché gli organismi infettivi.

Questo spiegherebbe anche perché la malattia di Crohn sia diffusa prevalentemente nei Paesi Occidentali, sebbene, come ha ricordato il Dottor Joseph D. Feuerstein, gastroenterologo presso il Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston, al New York Times

ora la vediamo ovunque – in Asia, America Latina, in tutto il mondo.

L’aumento dell’incidenza può essere legato anche ai flussi migratori, secondo il Prof. Gianluca Sampietro, Direttore della Divisione di Chirurgia Generale ed Epato-Bilio-Pancreatica, ASST Rhodense di Milano all‘Osservatorio Malattie Rare:

le MICI sono pressoché sconosciute nei Paesi in via di sviluppo, ma quando i cittadini di questi Paesi, nel corso dei flussi migratori, si trasferiscono stabilmente nei Paesi industrializzati, iniziano a soffrire di queste patologie. Stiamo assistendo a tanti pazienti di Stati nordafricani (Egitto, Marocco, Tunisia) che nei rispettivi Paesi non hanno mai neppure sentito nominare queste patologie né hanno mai avvertito alcun sintomo, ma, una volta in Italia, dopo qualche anno, si ammalano e finiscono in trattamento. Queste patologie immunomediate sono dunque sempre più tipiche dei Paesi industrializzati.

La malattia di Crohn è stata descritta per la prima volta nel 1932 dal Dr. Burrill B. Crohn e colleghi ed è una delle due malattie infiammatorie croniche intestinali (l’altra è la colite ulcerosa) che non hanno una causa specifica. Insieme, affliggono circa tre milioni di persone negli Stati Uniti e circa 150.000 in Italia.

Chi soffre di questo disturbo è soggetto alla formazione di ulcere intestinali che possono dare sintomi come diarrea cronica con dolore addominale, febbre, inappetenza e perdita di peso, oltre ad addome dolente e una massa o una zona di maggior consistenza al tatto. Anche se a essere maggiormente colpito è l’intestino, questa patologia può coinvolgere anche gli occhi, le articolazioni, il fegato e la pelle.

Il decorso di questa malattia cronica è recidivante: si alternano, infatti, periodi di benessere (remissione) alternati ad altri in cui i sintomi sono presenti (riacutizzazioni) senza mai raggiungere uno stato di guarigione totale. Anche dopo un trattamento medico o un intervento chirurgico, non ci sono strumenti che possano prevenire o predire una possibile ricaduta.

La malattia si presenta prevalentemente in età giovanile (20 – 30 anni) anche se, spiega ancora il Dottor Feuerstein,

se sei nato con la genetica giusta, può apparire per la prima volta nei bambini piccoli come in persone tra gli 80 ei 90 anni.

Quello che sta cambiando non è però solo il numero dei casi, ma la sua diffusione in pazienti che prima venivano colpiti più raramente: non solo, come abbiamo visto, le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, ma anche i pazienti pediatrici, come spiega il Prof. Paolo Lionetti, Professore Ordinario di Pediatria e Responsabile della Struttura Complessa Gastroenterologia e Nutrizione Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze:

L’aumento della prevalenza e dell’incidenza delle MICI nella popolazione pediatrica è un dato evidente. Il 20-25% dei casi esordisce in età pediatrica o adolescenziale. In particolare, in Italia, i dati del registro della Società di Gastroenterologia Pediatrica hanno messo in evidenza il progressivo aumento di queste malattie, che spesso esordiscono tra gli 8 e i 12 anni, ma l’impressione è che alcuni casi stiano anticipando fino ai 3-5 anni. Questo nuovo scenario pone problemi inediti. Il 30-40% dei bambini affetti da malattia di Crohn soffre di problemi di crescita; inoltre, il quadro clinico può essere dominato da manifestazioni extra-intestinali che possono portare a un ritardo delle diagnosi.

Anche se non si tratta di una malattia ereditaria nel senso stretto del termine (sebbene esista una predisposizione familiare nello sviluppo della patologia), la genetica gioca un ruolo fondamentale nella malattia, ha affermato il Dottor Gary R. Lichtenstein, gastroenterologo presso la University of Pennsylvania School of Medicine al NYT:

Non è un disturbo distinto: oltre 200 geni sono stati identificati come associati al Crohn. È il risultato di una complessa interazione tra l’ambiente e la genetica che può essere avviato dalla risposta di un individuo a esposizioni che vanno dagli agenti infettivi ai farmaci.

Cambiare dieta e stile di vita può aiutare a controllare i sintomi e allungare il tempo tra le riacutizzazioni: anche se non ci sono prove che dimostrino che alcuni alimenti possano influire direttamente sul decorso della malattia, infatti, alcuni cibi possono acutizzare i sintomi. Ma l’alimentazione non è che un aspetto: bandito assolutamente il fumo, è fondamentale anche ridurre lo stress, che spesso si accompagna alla patologia insieme ad ansia e depressione e che, anche se non causa la malattia, può influire negativamente sul suo decorso.

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