Docsplaining, quando i medici danno "spiegazioni non necessarie o paternalistiche"

Come il mansplaining da cui trae origine, anche il docsplaining si esplica in una serie di spiegazioni non richieste e spesso superbe da parte dei medici, orientate sia verso i colleghi, sia ai pazienti - anche, e soprattutto, quando sono donne. Vediamo di che cosa si tratta.

In origine vi era il mansplaining, ossia la tendenza di alcuni uomini a spiegare qualcosa in modo paternalistico e supponente a una donna, anche quando a esserne maggiormente esperta fosse quest’ultima. Coniato in modo articolato e strutturato dalla scrittrice statunitense Rebecca Solnit, il concetto si basa sull’idea che l’uomo sia sempre il più esperto e il più titolato a parlare, e che la donna, anche quando crede di conoscerlo, in realtà non capisca fino in fondo l’argomento oggetto della discussione.

Il termine mansplaining ha, poi, visto una sua diffusione virale e ha iniziato a essere utilizzato a prescindere dal genere del mansplainer, andando, così, a identificare tutte quelle situazioni in cui una persona si rivolge a qualcuno in modo presuntuoso e accondiscendente, fornendo una spiegazione – spesso neanche richiesta – ai suoi interlocutori.

In questo solco si inserisce anche il cosiddetto docsplaining, che, come si evince dal nome, evidenzia tale comportamento in ambito strettamente medico, indicando tutte le volte in cui un dottore parla e si pone in modo altezzoso sia verso i propri pazienti, sia nei confronti di colleghi che hanno maggiore esperienza e competenza.

Vediamone i dettagli.

Che cosa si intende per docsplaining?

A parlarne per primo è stato il dottor John Launer, il quale nel febbraio del 2019 ha scritto, sul BMJ’s Postgraduate Medical Journal, che il docsplaining si traduce in una serie di

spiegazioni indesiderate, non necessarie o paternalistiche da parte di medici a non medici, siano essi pazienti o semplicemente membri del pubblico che soffrono della deplorevole mancanza di una laurea in medicina.

Le forme in cui questo si esplica sono molteplici e differenti. Uno dei più comuni, però, è sicuramente quello che si verifica quando i medici si assumono la responsabilità di spiegare i problemi ad altri operatori sanitari che potrebbero avere molta più esperienza e conoscenza in relazione al paziente o all’argomento in discussione.

O ancora, come si legge su The Irish Times, il docsplaining può dispiegarsi

nell’esprimere congetture mediche come certezza (“Non c’è assolutamente alcun dubbio che sia virale”) o inquadrare una prova di trattamento come infallibile (“Queste pillole risolveranno il problema”).

Non tutti, naturalmente, sono d’accordo con le parole e la visione del dottor Launer. Tra questi, ha manifestato la propria avversione il pediatra statunitense Bryan Vartabedian, il quale ha considerato le parole di Launer alla stregua di una “generalizzazione offensiva” rea di perpetuare uno “stereotipo perverso“.

Senza dubbio, le considerazioni di Launer hanno solleticato un nervo scoperto, utile per riflettere sulla qualità della comunicazione tra medico e paziente e per ricordarsi che anch’essa è parte integrante e fondamentale del rapporto che intercorre tra le due parti, e non solo un aspetto tra i tanti.

Le conseguenze del docsplaining

Il docsplaining, infatti, può avere delle conseguenze proprio in questo senso: può compromettere la comunicazione tra medico e paziente e, di conseguenza, il senso di fiducia e sicurezza del secondo nei confronti del primo e i risultati positivi della cura.

Come si legge su Hemo Cue, le derivazioni più pericolose e impattanti di tale atteggiamento possono essere le seguenti:

  • Sensazione di impotenza tra i pazienti;
  • Scarsa soddisfazione del degente;
  • Comprensione inadeguata, da parte del paziente, delle condizioni e delle fasi del trattamento;
  • Fallimento terapeutico a causa di una scarsa conoscenza dei metodi curativi;
  • Reclami rivolti ai medici a causa delle loro scarse abilità comunicative.

Saper comunicare con empatia ed efficacia le nozioni necessarie ai fini del trattamento terapeutico, tuttavia, si rivela essere un grande vantaggio non solo per il paziente, che è così reso partecipe di una comunicazione consapevole ed esaustiva, ma anche, e talvolta soprattutto, per il medico, che dialogando con il primo ha la possibilità di rilevare determinati problemi in anticipo, prevenire crisi e/o evitare costosi interventi medici.

La comunicazione tra pazienti e dottore

Come è possibile, allora, perfezionare la comunicazione tra dottore e paziente e fare in modo che questa possa essere efficace e vantaggiosa per ambo le parti?

Sempre su Hemo Cue, per farlo ci si può avvalere di una serie di consigli preziosi, utili sia per i medici, sia per i pazienti che si trovano a dialogare con i primi, e che possono così comprendere quale tipo di comunicazione è stata messa in atto:

  • La prima impressione conta: per instaurare un clima di fiducia e sicurezza, è fondamentale chiamare il paziente per nome, sorridere, stringerli la mano e cercare spesso il contatto visivo, evitando il più possibile l’intermediazione della tecnologia;
  • Fare attenzione alla comunicazione non verbale: non sempre è chiaro ciò che il paziente sta provando o sentendo dentro di sé, perciò è importante prestare molta attenzione anche a ciò che non viene detto a parole, ma solo con il comportamento corporeo;
  • Porsi al livello del paziente: è bene non stare in piedi e suggerire, in questo modo, una percezione di superiorità, bensì “abbassarsi” al livello del degente, prendere una sedia e sedersi, in modo tale da promuovere con lui un dialogo faccia a faccia;
  • Ascoltare i pazienti: chi si trova in uno stato di fragilità ha bisogno di essere ascoltato, perciò è necessario fornire ai pazienti la possibilità di esprimere le proprie sensazioni ed emozioni, affinché anche il medico possa carpire tutte le sfumature dello stato psicofisico di chi si sta sottoponendo a un processo di cura;
  • Utilizzare termini positivi: quando si parla di un trattamento e si cerca di convincere il degente della bontà dello stesso, è essenziale porre l’accento non sugli “effetti collaterali” o i vari “rischi” che esso comporta, ma, al contrario, su tutti gli effetti positivi che la terapia reca con sé, prediligendo aggettivi quali “sano”, “sicuro” e così via.

Docsplaining e donne

E come il termine da cui trae ispirazione, anche il docsplaining, ovviamente, non manca di accentuarsi nei confronti delle donne, in particolar modo quando si tratta di decisioni che riguardano l’autonomia e l’autodeterminazione del corpo di queste ultime.

Come si legge sempre su The Irish Times:

Una combinazione particolarmente tossica è quella del docsplaining insieme al mansplaining. Un ginecologo maschio che ha spiegato a una donna in post-menopausa che ora era effettivamente un uomo è un esempio di questa combinazione mortale. E il “noi” reale è semplicemente condiscendente; come in un medico che dice a un paziente “tendiamo a sentirci così quando siamo anemici”.

Anche in questo caso, dunque, vi è la tendenza, da parte degli uomini, ad avere la superbia di conoscere esattamente ciò che è giusto per una paziente donna, senza considerarne fino in fondo sintomi e sensazioni e credendo, anzi, di conoscere molto meglio di lei le percezioni interiori che essa prova – svalutandone, spesso, dolori, fastidi e disagi.

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