Una pratica medica di cui si parla spesso in modo improprio e un tema che può diventare controverso, trovando (come per ogni argomento di discussione), persone a favore e persone contro: parliamo della sedazione profonda, una tecnica anestesiologica utilizzata in ambito medico per addormentare il paziente senza che ne venga compromessa la funzionalità respiratoria.

Una metodologia che, proprio per questa sua caratteristica di autonomia respiratoria, si trova esattamente a metà strada tra l’anestesia generale, in cui è necessario l’utilizzo di un respiratore meccanico, e la sedazione cosciente, in cui il paziente è sveglio. Ma entriamo più nel dettaglio e proviamo a capire di cosa si tratta esattamente e quando viene usata la sedazione profonda.

Cos’è la sedazione profonda?

Quando si parla di sedazione profonda si fa riferimento a una specifica tecnica medica utilizzata per addormentare il paziente, sia durante alcune procedure mediche e chirurgiche anche invasive (evitando l’anestesia totale) sia come strumento per accompagnare i pazienti con malattie in fase terminale verso la fine della loro vita.

La sedazione avviene inducendo un addormentamento profondo, appunto, e la perdita di coscienza, ma in modo che venga mantenuta l’autonomia delle funzionalità respiratorie senza l’utilizzo di macchinari di sostegno.

Quando viene effettuata la sedazione profonda

Una pratica che, come detto, a seconda di come viene attuata, trova impiego e applicazione in diversi campi medici tra cui:

  • eventuali procedure diagnostiche radiologiche (soprattutto in età infantile);
  • procedure diagnostiche invasive (come per esempio la colonscopia);
  • interventi di chirurgia “minore”;
  • durante la degenza del paziente in terapia intensiva;
  • nelle cure palliative e nella terapia del dolore.

In questo modo, si permette al paziente di non provare dolore, ansia o agitazione durante determinate cure, poiché privato della sua coscienza, ottenendo una miglior gestione delle diverse funzionalità vitali e diminuendone l’affaticamento (per esempio nei pazienti in terapia intensiva), ed evitando inoltre l’invasività dell’anestesia totale in determinate tipologie di soggetti più fragili.

La sedazione profonda palliativa

Ma perché, come detto all’inizio, questa pratica risulta controversa e oggetto di discussione? Il motivo nasce dal suo utilizzo in modo continuativo in quei pazienti con patologie in fase terminale. In questo caso, appunto si parla di sedazione palliativa continua profonda e si utilizza per alleviare la sofferenza e il dolore percepito dai pazienti che vivono la fase terminale di una malattia e a cui, quindi, si prospetta un decesso nel breve periodo.

Un scelta, quella della sedazione profonda palliativa, che spetta ai medici anche a seconda delle caratteristiche del paziente e dopo aver eseguito gli esami necessari. Ma che spetta anche al soggetto stesso e ai familiari nel caso in cui questo non sia più in grado di intendere e volere. Che devono darne il consenso.

Attenzione però a non confondere la sedazione profonda con l’eutanasia (illegale in Italia) e che porta al decesso del paziente tramite la sospensione dei diversi sostegni vitali e la somministrazione di alcuni farmaci, in un tempo molto breve. O con il suicidio assistito in cui è il paziente stesso a chiedere di porre fine alla sua vita tramite la supervisione di medici specializzati, per esempio ingerendo consapevolmente specifici farmaci.

La sedazione profonda, infatti, non anticipa o accelera il percorso fisiologico al decesso ma lo allevia, addormentando e privando della coscienza il paziente ma mantenendone autonoma la respirazione ed eliminandone ogni sensazione di dolore o sofferenza, accompagnandolo fino al momento della morte stessa.

Un pratica che, quindi, non commette nessuna azione attiva volta a interrompere la vita del paziente o le sue funzioni vitali (cosa che invece avviene a livelli diversi sia nell’eutanasia che nel suicidio assistito attraverso azioni mirate allo scopo), ma che si limita a sospendere eventuali terapie in atto mantenendo il paziente in uno stato di addormentamento profondo, privo di coscienza e dolore.

Sedazione profonda: quanto dura

La sedazione profonda non ha una durata prestabilita ma, a seconda del motivo per cui la si usa, dipende molto dal soggetto a cui viene eseguita.

Se temporanea, viene usata solo per un breve lasso di tempo e con uno scopo preciso (per esempio per gli scopi medici sopra citati). Se continuativa, invece, e a scopo palliativo come nel caso delle malattie in fase terminale, la durata della sedazione profonda dipende dalle condizioni del paziente e dalla resistenza del suo corpo, dalla sua riserva di energia, dalla sua capacità respiratoria, cardiocircolatoria e dalla sua resistenza senza le terapie mediche a cui era abituato.

Solitamente, però, la sedazione profonda continua si esaurisce nel giro di pochi giorni, dai tre ai cinque.

I rischi della sedazione profonda

In linea generale, quindi, se usata per scopi temporanei, la sedazione profonda risulta essere una pratica sicura e non presenta particolari rischi, poiché i farmaci utilizzato sono di facile smaltimento da parte del corpo.

Vero è che, come per ogni tipologia di sedazione, possono presentarsi degli aspetti a cui prestare attenzione e qualche effetto collaterale di breve durata come:

  • sonnolenza e/o confusione mentale;
  • ipotensione;
  • complicanze cardiovascolari;
  • disturbi della respirazione con dispnea;
  • nausea e vomito;
  • mal di testa;
  • malessere generale;
  • reazioni allergiche.

Diverso, invece, è il caso in cui ci si trovi in determinate condizioni per cui la sedazione profonda non viene usata o comunque è controindicata. Per esempio:

  • in stato di gravidanza;
  • in età avanzata;
  • con problemi cardiovascolari gravi;
  • se si soffre di allergia a determinati farmaci anestesiologici;
  • con febbre alta a causa di un’infezione.

O se la sedazione profonda ha dato problemi a livello respiratorio in utilizzi precedenti.

Nel caso in cui, invece, venga usata in modo palliativo e continuo, la sedazione profonda può essere vista come un atto eticamente dovuto, poiché volto al miglioramento della qualità della vita delle persone, senza alterarne il decorso e senza modificarne l’andamento fino alla sua naturale conclusione.

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