Sopravvivere alla terapia intensiva è solo l’inizio di un viaggio molto più lungo. La chiamano sindrome post terapia intensiva: i pazienti guariti, lo sono, ma non del tutto.

Dopo aver lasciato l’ospedale comincia, infatti, un’altra dura battaglia, fatta di riprese, riabilitazione, controlli e sostegno psicologico. L’epidemia di Sars-Cov-2 ha puntato i riflettori sulle sfide che i pazienti ricoverati in terapia intensiva devono affrontare, da sempre.

Esistono, difatti, numerose associazioni e istituti che si occupano in maniera specifica della PICS (Post Intensive Care Syndrome), così come la Cliveland Clinic, che accompagna i pazienti in un programma specifico di supporto, sia fisico che psicologico.

La sindrome post-terapia intensiva (PICS) è caratterizzata da un insieme di sintomi (fisici, mentali ed emotivi) che continuano a persistere dopo che il paziente lascia l’unità di terapia intensiva.

Diversi studi scientifici ritengono fondamentale comprendere gli effetti a lungo termine sulle persone che sono “sopravvissute”. Sono dell’opinione, infatti, che i disturbi possano durare anche per un anno a seguito della dimissione.

Cos’è la sindrome da post terapia intensiva dopo il COVID-19

Chi è guarito di Sars-Cov-2 ed è stato in terapia intensiva, quali conseguenze potrà avere per il suo stato di salute futuro?

Sebbene la maggior parte degli individui infetti di SARS-CoV-2 sembri essere asintomatica o manifesti sintomi lievi (come tosse persistente, dolori al torace e febbre), la pandemia ha provocato un picco senza precedenti nell’incidenza di ARDS (sindrome da distress respiratorio acuto).

Uno studio del dottor Needham, ricercatore della Johns Hopkins ed esperto nello studio della PICS, afferma che fino all’80% dei pazienti che sopravvivono alla sindrome da insufficienza respiratoria acuta, dopo aver ricevuto cure con ventilazione meccanica in terapia intensiva, subiscono successivamente danni fisici, cognitivi e/o mentali che persistono per lungo tempo dopo la dimissione dall’ospedale.

Il virus Sars-Cov-2 attacca fortemente l’organismo. Colpisce infatti direttamente i polmoni, ma successivamente anche reni, fegato, cuore e cervello. Gli scienziati stanno ancora valutando con attenzione quali possano essere le conseguenze a lungo termine della malattia, ma le hanno associate a quelle dell’ARDS, la Sindrome da distress respiratorio acuto. Quindi, chi ha avuto problemi respiratori da un caso grave di polmonite, non è escluso che posso rischiare di sviluppare altre nuove patologie, come infarto, ictus e insufficienza renale.

Sempre il dottor Needham ha verificato che i pazienti colpiti da Sars-Cov-2 rimangono attaccati ai sistemi di ventilazione artificiale per più di due settimane. Questo può causare lo sviluppo di atrofie e debolezza muscolare, così come di uno stato confusionale (delirio) e disturbi cognitivi come i deficit di memoria.

Senza considerare i risvolti psicologici del ricovero che può portare a stress, ansia e depressione. Molto forte la testimonianza di una paziente inglese di 59 anni, ricoverata al Whittington Hospital a nord di Londra, la quale ha dichiarato:

“Era come essere all’inferno. Ho visto persone morire, come se la propria vita fosse risucchiata.Tutto il personale indossava una maschera e tutto quello che vedevi erano gli occhi – era tutto così solitario e spaventoso.”

Da quando è stata dimessa ad aprile, la 59enne fa fatica a dormire e soffre di continui flashback.

L’importanza della riabilitazione dopo la terapia intensiva

Alla luce di tutto ciò, è chiaro che la fase successiva al ricovero debba essere un percorso di recupero e di riabilitazione che deve essere seguito con attenzione. Vi sono tanti casi di eccellenza. Ad esempio, la John Hopkins ha realizzato un programma straordinario per fornire regolarmente aiuto psicologico e fisioterapia ai pazienti dimessi dalla terapia intensiva. A seguito dell’emergenza COVID-19, la dottoressa Ann Marie Parker, specializzata in medicina polmonare, sta creando una vera e propria clinica virtuale per aiutare tutti i pazienti.

Il Gruppo NHS Tayside in Scozia ha istituito un servizio per supportare i pazienti in terapia intensiva già 10 anni fa. Oggi lo ha potenziato con un programma di recupero per aiutare le persone che necessitano di un sostegno psicologico e fisioterapia mirata dopo essere stati colpiti dal Coronavirus.

Il caso del Centro di Ricerca “Alessandra Bono” a Brescia

Non mancano esempi di eccellenza anche in Italia. In particolare, a Brescia, pochi giorni fa è nato il centro di ricerca universitario “LA VITA DOPO LA TERAPIA INTENSIVA”, della durata di cinque anni, seguito dal Prof. Nicola Latronico, che ha come scopo quello di accogliere e supportare il bisogno di cura dei pazienti sopravvissuti alla Terapia Intensiva.

“Il ricovero in terapia intensiva è un evento traumatico, non solo per il paziente, ma anche per la famiglia sia nella fase acuta di malattia che dopo la dimissione dalla Terapia Intensiva e dall’Ospedale. I pazienti dimessi sono soggetti a disabilità residue e complicanze, come la perdita di massa e forza muscolare, complicanze neuro-psicologiche, dolore ed altre condizioni patologiche che possono persistere per mesi, anni e forse indefinitamente dopo la dimissione dall’Ospedale.” spiega il Prof. Nicola Latronico, responsabile del progetto.

Il Centro trae le sue origini dal progetto “LA VITA DOPO LA TERAPIA INTENSIVA”, nato dalla collaborazione tra la Fondazione Alessandra Bono e l’ASST Spedali Civili di Brescia: un programma di follow-up clinico la cui missione è di accogliere e supportare il bisogno di cura dei pazienti sopravvissuti alla Terapia Intensiva.

Alessandra Bono , la donna a cui la fondazione è intestata, oggi avrebbe 44 anni. La sua battaglia contro il cancro all’ovaio terminò dopo ben 12 anni, il 10 giugno 2016. La famiglia di Alessandra ha continuato a combattere promuovendo la ricerca e sostenendo tutta una serie di progetti interessantissimi grazie alla Fondazione. Tra questi, il progetto Cartoni Animati in Corsia, fatto di laboratori cinematografici, che stimolano la creatività e la consapevolezza di sé creando uno spazio in cui incontrare gli altri, aiutando il bambino ospedalizzato e la sua famiglia a vivere l’ambiente e il tempo della degenza come occasioni di divertimento e apprendimento.

“L’emergenza sanitaria che il mondo ha dovuto e che deve tutt’oggi affrontare ha fatto luce su un tema di grande importanza per i pazienti, per le famiglie, per le strutture ospedaliere. Le difficoltà da superare per garantire la qualità di vita dopo il trattamento in Terapia Intensiva sono tante e vanno affrontate con protocolli scientifici e con un approccio che tenga conto del paziente e della sua famiglia, quindi un approccio fisico e anche psicologico.” ha dichiarato il Cav. Valerio Bono, Presidente della Fondazione.

Insomma, è fondamentale ripensare ai percorsi riabilitativi per chi è sopravvissuto alla terapia intensiva, soprattutto in questo periodo a seguito del contagio da Sars-Cov-2. Paradossalmente la pandemia globale potrà essere un’ottima opportunità per continuare a fare ricerca e sperimentare nuove forme di assistenza al paziente.

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