E se morire non fosse così terribile? I risultati di una studio scientifico
Una ricerca che ha coinvolto malati terminali e detenuti nel braccio della morte: com'è morire per chi davvero si sta avvicinando all'ora fatale?
Una ricerca che ha coinvolto malati terminali e detenuti nel braccio della morte: com'è morire per chi davvero si sta avvicinando all'ora fatale?
“Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha nell’urna.”
Lo scriveva Ugo Foscolo nel carme Dei sepolcri, che parlava della morte soprattutto dal punto di vista di chi resta. È quasi scontato pensare che ogni persona che abbia perso qualcuno di caro ne abbia sofferto, abbia patito il lutto. Ma cosa rappresenta la morte per chi sta effettivamente morendo perché affetto da un male terminale?
Saremmo portati a pensare che sia altrettanto terribile – anche se nel tempo musicisti, scrittori e registi ci hanno parlato della morte e del lutto in maniera ironica, come Woody Allen nel film Amore e guerra, Frank Oz in Funeral Party o Cristina Comencini in Latin Lover, oppure anche nella poesia Il mondo è un gran bel posto di Lawrence Ferlinghetti. Quale potrebbe essere la verità? Probabilmente ogni persona prova qualcosa di differente quando sta per morire, c’è però uno studio che ha dato una chiave di lettura alla questione.
Nel 2014 ComRes ha realizzato una ricerca, scoprendo che 8 inglesi du 10 si sentono a disagio a parlare di morte, mentre solo un terzo ha fatto testamento. Nel 2017 è uscita invece Dying Is Unexpectedly Positive, realizzata da un team coordinato da Amelian Goranson. Nello studio sono stati presi in considerazione due gruppi di persone: un gruppo di persone sane cui è stato chiesto di tenere un blog raccontando come si sentirebbero alle prese con una malattia terminale e la morte incombente, e un altro gruppo di persone che effettivamente avevano carcinomi terminali o sclerosi laterale amiotrofica (Sla) e che tenevano analogamente un blog in cui esponevano i propri pensieri.
È stato trovato che i post dei blog tenuti dai veri malati terminali contenevano sentimenti e parole più positivi rispetto a chi cercava di immaginare soltanto l’incombere della morte. In particolare, sentimenti e parole positivi crescevano con l’avvicinarsi del giorno fatale, in particolare su famiglia e religione. Non solo: i ricercatori hanno voluto analizzare poesie e scritti di un altro gruppo decisamente speciale, formato da detenuti nel braccio della morte, a confronto con gli scritti di persone che immaginavano soltanto la propria esecuzione.
Immagino – ha detto al Guardian Kurt Gray, uno degli studiosi di questa ricerca – che ciò sia dovuto al fatto che queste persone sanno che le cose stanno diventando più serie, e c’è una sorta di accettazione e attenzione al positivo perché sanno che non ha molto tempo a disposizione. Parliamo continuamente di come siamo fisicamente adattabili, ma siamo anche mentalmente adattabili. Possiamo essere felici in prigione, in ospedale, e possiamo essere felici anche al limite della morte. Morire non è solo una parte della condizione umana, ma è centrale. Tutti muoiono e molti di noi ne hanno paura. Il nostro studio è importante perché sta dicendo che non è così male come pensiamo che sia.
Lo studio apre però a delle ipotesi sul perché nei malati terminali o tra i detenuti in attesa di esecuzione, la morte non sia così terribile. Secondo Lisa Iverach dell’Università di Sydney, i partecipanti alla ricerca hanno già elaborato l’idea di morire e potrebbero aver accettato l’ineluttabilità della morte. Mentre il filosofo Havi Carel dell’Università di Bristol concorda sull’adattabilità dell’essere umano, naturalmente dopo uno choc iniziale.
Azzardando anche che, nelle persone che stanno per morire, scrivere un blog potrebbe rappresentare un modo per lasciare traccia di sé ai posteri e quindi le persone coinvolte nella ricerca potrebbero aver voluto, anche inconsapevolmente, lasciare di loro stessi un’immagine positiva e ottimista. Coraggiosa anche. Ma c’è anche chi mette in guardia dal dare alla ricerca una chiave di lettura troppo letterale.
Penso – ha detto Nathan Heflick dell’Università di Lincoln – che sia un messaggio pericoloso, e non è una conclusione riflessa nei dati dello studio. Essere meno negativi è diverso dall’accogliere o volere la morte. La gente teme la morte. Queste persone che morivano temevano la morte. Semplicemente non la temevano tanto quanto la gente pensa di temere.
Vorrei vivere in un incubo di David Lynch. #betweentwoworlds
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