Dove sono le Zone Blu, i luoghi in cui si nasconde il segreto delle vite longeve

Il fenomeno delle Zone Blu è diffuso in 5 aree in tutto il mondo: di cosa si tratta e perché il modello non è facilmente "esportabile".

Quella delle Zone Blu è una storia insolita. Perché la ricerca scientifica non nasce per caso, ma a volte si comincia a osservare e studiare qualcosa e si finisce per formulare una teoria, magari attinente ma non proprio. Così Dan Buettner ha avviato una spedizione del National Geographic alla scoperta dei segreti della longevità, e ha trovato 5 luoghi al mondo in cui le persone vivono più a lungo e meglio.

Cosa sono le Blue Zones

Questi 5 luoghi prendono il nome di Blue Zones: chi ci vive ha una vita media oltre i 100 anni, grazie a una serie di fattori favorevoli legati allo stile di vita, ovvero il consumo quotidiano di cibi vegetali e integrali, la consuetudine a svolgere un’attività fisica anche leggera, tante interazioni sociali di qualità e poco o niente stress. Solo il nome è in un certo senso fortuito, perché queste zone vennero contrassegnate sulla mappa con una penna blu la prima volta. Per spiegare meglio il fenomeno, Dan Buettner e il collaboratore Sam Skemp hanno realizzato uno studio dal titolo Blue Zones – Lessons From the World’s Longest Lived. Il risultato non è solo l’individuazione delle 5 zone al mondo in cui longevità e qualità della vita si compenetrano, ma quali siano i 9 fattori che rendono possibile tutto ciò.

Mappa delle Zone Blu dove la gente vive molto più a lungo

Come detto, le Zone Blu al mondo sono 5. E una si trova anche in Italia: Sono:

  • la Sardegna. Un’intera isola, un’intera regione in cui le persone sono longeve e stanno bene. Secondo Buettner avviene perché le comunità di pastori percorrono a piedi diversi chilometri al giorno in montagna con ricadute positive sull’apparato cardiovascolare e sul metabolismo muscolare e osseo, ma anche perché la dieta locale è composta in gran parte da pane integrale, fagioli, verdure e frutta. E poi c’è il Cannonau, che, se bevuto con moderazione, fa bene perché contiene più flavonoidi rispetto ad altri vini;
  • Okinawa. La seconda zona è una prefettura composta da moltissime isole, che offre supporto finanziario ed emotivo attraverso una rete sociale di sicurezza chiamate moai. E quando una persona che fa parte della rete sociale non si palesa, gli altri la cercano, la vanno a trovare. Inoltre le persone qui hanno un mantra, Hara Hachi Bu, per cui smettono di mangiare in un pasto in cui si sentono sazi all’80%;
  • Loma Linda. Si tratta di una città in California, una comunità avventista in cui vige una dieta vegana a base verdure a foglia verde, noci e legumi. Le persone lavorano solo 24 ore a settimana e svolgono un esistenza lenta, fatta di piccoli piaceri, cura degli altri attraverso il volontariato, meditazione attraverso la lettura della Bibbia e tanto fai da te;
  • Nycoya. È una penisola in Costa Rica, in cui ci si avvale di una rete di protezione famigliare, in cui anziane e anziane rappresentano il cardine. Non si consumano cibi trasformati (e figuriamoci iperprocessati), bensì frutta tropicale con tanti antiossidanti e acqua ricca di calcio e magnesio, che contribuisce alla salute di cuore e ossa;
  • Ikaria. L’ultima delle Blue Zones è un’isola greca, che seguono una variante della dieta mediterranea con frutta e verdura, cereali integrali, fagioli, patate e olio d’oliva, ogni giorno fanno una pennichella pomeridiana (che abbassa gli ormoni dello stress e fa bene al cuore).

Il segreto delle zone blu: Longevità, dieta e relazioni

Sono 9 i fattori che secondo Buettner rendono le Zone Blu tanto speciali. Certo, una buona predisposizione genetica ha un ruolo, ma per l’80% longevità e buona qualità della vita si devono ad altri fattori, ovvero:

  1. movimenti lenti senza mai forzare il corpo. Questo esclude palestre e sport agonistici, mentre include lavori di casa senza elettrodomestici (insomma, scordatevi la lavatrice) e realizzazione di piccoli orti in giardino;
  2. avere un piano di vita, uno scopo per svegliarsi ogni mattina e sentirsi bene;
  3. niente stress, che porta a infiammazioni croniche, che solitamente insorgono per patologie connesse all’età;
  4. sazietà fino all’80%, come per il succitato mantra di Okinawa;
  5. dieta vegetariana o vegana, o in generale un’alimentazione a estrema prevalenza vegetale, con cereali integrali;
  6. bere solo vino tra gli alcolici fino al massimo di un bicchiere al giorno;
  7. fare comunità. Certo, la religione è un fattore aggregante, ma la cosa importante è trovare qualcosa che lega le persone, le connette, le immette in una rete solidale di vicinanza;
  8. attaccamento alla famiglia. È un corollario del fattore precedente, ma in generale indica la cura per i membri della famiglia allargata, in primis anziani e bambini;
  9. trovarsi in un gruppo che incoraggia comportamenti salutari e felicità.

Può funzionare anche qui?

Per poter funzionare in altre parti del mondo, le Blue Zones dovrebbero spingerci a rivedere completamente non solo modelli sociali e abitudini, ma soprattutto l’intero assetto delle nostre città secondo i 9 punti enumerati da Buettner. Occorrono politiche apposite, una nuova etica del lavoro (e salari che permettano di vivere rispetto al costo della vita), uno stile di vita lento e rilassato, e perfino una nuova architettura degli agglomerati cittadini. Nei piccoli borghi italiani è decisamente più semplice, a partire dalla creazione di una microeconomia autosufficiente, ma ci si dovrebbe adeguare a molti aspetti che rendono, per esempio, la Sardegna così peculiare.

Nello studio di Buettner c’è un caso emblematico molto interessante. Racconta di Stamatis Moraitis, un residente di Ikaria che a 22 anni si trasferì negli Stati Uniti: ebbe successo come pittore, comprò una casa ed ebbe 3 figli, ma a 66 anni sviluppò un cancro terminale ai polmoni. Tornò quindi a Ikaria, pensando di finire lì la sua vita, godendosi alcuni piccoli piaceri, tra cui un orto domestico e adeguandosi allo stile di vita locale in compagnia dei suoi anziani genitori. Sono passati 37 anni e, al momento in cui Buettner ha realizzato il suo studio nel 2016, era ancora vivo. Non solo: aveva creato un vigneto che produceva 200 litri di vino all’anno. La sua spiegazione?

“Mi sono semplicemente dimenticato di morire”.

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