Disabilità: perché la pandemia può aiutarci a ricostruire un mondo più inclusivo

La pandemia da Covid-19, oltre a mettere in luce discriminazioni e disuguaglianze, ha creato nuove opportunità che, se sapremo essere in grado di cogliere appieno e inserirle nel tessuto sociale ed economico, potranno rivelarsi i primi passi verso una società equa e più inclusiva, che non permetta a nessuno di restare indietro.

Il 3 dicembre si celebra la Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità, istituita nel 1992 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, allo scopo di diffondere una maggiore consapevolezza sul tema e promuovere l’inclusione delle persone con disabilità in tutti gli aspetti della società e dello sviluppo, sottolineando i vantaggi che un processo di integrazione potrebbe offrire ai fini di una società più equa, giusta e inclusiva.

Il tema scelto per questo anno così difficile non poteva che essere legato all’emergenza sanitaria che ci troviamo ad affrontare, Ricostruire meglio: verso una disabilità inclusiva, accessibile e sostenibile post COVID-19. La pandemia da Coronavirus ha infatti modificato molte nostre abitudini e sottolineato in maniera ancora più evidente le discriminazioni e le difficoltà a cui sono soggette le categorie più fragili della società, rendendoci maggiormente consapevoli dell’urgenza di un cambiamento. Allo stesso tempo, in condizioni di estrema difficoltà, ha permesso di mettere in pratica soluzioni alternative e virtuose che possono rappresentare un efficace aiuto, anche in condizioni normali, per le persone che necessitano di bisogni particolari, trasformandosi in un’opportunità per costruire una società più inclusiva, che si impegni a non lasciare indietro nessuno.

Secondo quanto riportato dal sito dell’Unione Europea, entro la fine del 202o, un quinto della popolazione europea presenterà qualche forma di disabilità. Il primo rapporto mondiale sulla disabilità, prodotto congiuntamente dall’OMS e dalla Banca Mondiale nel 2011, rileva poi che sono più di un miliardo le persone con disabilità e che circa l’80% di queste vive in Paesi in via di sviluppo, spesso, in condizioni di povertà. Non solo, il rapporto ha messo in luce anche che le persone con disabilità presentano generalmente una salute peggiore, minori opportunità economiche e risultati scolastici inferiori rispetto alle persone senza disabilità. Ciò è dovuto principalmente alla mancanza di servizi a loro disposizione e ai numerosi ostacoli che incontrano nella vita quotidiana.

Secondo il rapporto Istat sulla disabilità del 2019, nel nostro Paese sarebbero circa 3,1 milioni le persone che, a causa di problemi di salute, soffrono di gravi limitazioni che impediscono loro di svolgere attività abituali. Di questi, quasi 1 milione e mezzo sarebbero ultra settantacinquenni, di cui 990.000 donne. In occasione della presentazione del rapporto, nel dicembre 2019, il presidente Mattarella ha fatto un sentito intervento, inizialmente non previsto, lanciando un messaggio chiaro e pieno di speranza, di cui vi consegniamo il passaggio più intenso e significativo:

Le persone con disabilità rappresentano un giacimento di qualità, energie e risorse di cui il Paese spesso si priva perché non li mette nelle condizioni di esprimerle.

Ed è proprio da queste parole che dovremmo partire per costruire una società più inclusiva che tenga conto dei bisogni della categorie più fragili, a tutti gli effetti una risorsa e una ricchezza per l’intera comunità, il suo sviluppo e la sua crescita.

Disabilità e discriminazioni

Se da un lato, come vedremo, questa pandemia ha messo in luce le potenzialità di alcuni mezzi nell’ottica del miglioramento della vita dei disabili, dall’altro, c’è ancora una forte discriminazione a danno queste categorie, evidente ad esempio nell’accesso alle cure e nella dignità della persona. La scarsità di mezzi e risorse mediche, che mai come quest’anno si è verificata su larga scala, potrebbe ricadere proprio sulle categorie più fragili.

Come riporta il New York Times, piani come il Crisis Standards of Care, previsti per tutti i paesi degli Stati Uniti, mettono in luce come in una condizione di particolare gravità ed emergenza, come quella che stiamo vivendo ora, la presenza di comorbilità e di uno stato di salute più fragile siano prese in considerazione ai fini dell’allocazione delle risorse che si hanno a disposizione. Eppure, una società che offre corsie preferenziali all’accesso alle cure in base allo stato di salute, sostenendo implicitamente una gerarchia di categorie, non può che avere fallito. Queste sono le parole di Alice Wong attivista disabile del progetto Disability Visability Project. che sostiene come le persone non dovrebbero avere minori possibilità di essere curate a causa di disabilità preesistenti, nemmeno in condizioni di gravi carenze di risorse mediche.

Il mio respiratore è parte del mio corpo – non posso stare senza per più di un’ora al massimo a causa della mia disabilità neuromuscolare. Per i medici, togliermi il respiratore sarebbe un assalto alla mia personalità e mi porterebbe alla morte. Mi merito le stesse cure di qualsiasi paziente. Come disabile, mi sono fatta strada a forza di artigli da quando sono nata. Non mi scuserò per i miei bisogni.

La stessa situazione discriminatoria si ripercuote su altri ambiti della società, come quello dell’istruzione e dell’accesso alle scuole. Una situazione di particolare gravità come quella a cui ci ha costretto la pandemia, ha reso più difficile lo svolgimento di attività considerate normali per moltissimi bambini con disabilità che, in condizioni normali, avrebbero potuto godere di programmi speciali di educazione appositamente studiati. Con il passaggio obbligato alla didattica a distanza, molti dei servizi per i quali i genitori si sono battuti, sono stati penalizzati e, ancora una volta, questa situazione di emergenza ha sottolineato disuguaglianze a svantaggio delle famiglie più povere e meno strutturate con una minore disponibilità di mezzi e risorse.

Non tutti i genitori, infatti, hanno potuto permettersi di rinunciare al proprio lavoro per seguire i figli che necessitavano di un aiuto costante; inoltre, non tutte le famiglie hanno a disposizione i mezzi necessari per far studiare i bambini, come un computer o una connessione a Internet.

Julia Bascom, direttore esecutivo dell’Autistic Self Advocacy Network, esprime così le sue preoccupazioni sul futuro che le giovani generazioni troveranno una volta rientrati a scuola, dopo il difficile periodo della pandemia:

Quando tutti i nostri ragazzi torneranno nelle classi fisiche, troveranno le scuole meno impegnate nell’inclusione e nei diritti e bisogni degli studenti disabili? La pandemia ha ingigantito questi enormi problemi strutturali. Alla fine saranno gli studenti disabili ed emarginati a portarne il peso, a subire ritardi e a perdere tempo.

E, proprio in quest’ottica, la Boscom rinnova l’urgenza di un’efficiente pianificazione di programmi mirati e ben studiati per gli studenti con disabilità e bisogni speciali, perché possano essere sostenuti nel loro percorso scolastico e godere degli stessi diritti degli altri studenti, senza essere penalizzati o lasciati indietro, come la società attuale ha purtroppo spesso dimostrato di saper fare.

Le opportunità “create” dalla pandemia

Eppure, anche una situazione di tale gravità ci fornisce degli spunti di riflessione utili che possono aiutarci a creare una società migliore, più inclusiva e giusta. La pandemia, e la conseguente necessità di un nuovo tipo di lavoro, svolto prevalentemente online e da remoto, ha consentito a molte categorie fragili di sperimentare una routine più semplice e agile, non messa a dura prova di continuo dalle tante restrizioni e barriere fisiche, e non solo, che normalmente sono costrette a incontrare nella loro vita sociale.

Non solo, la pandemia, paradossalmente, ha rappresentato per loro un’opportunità per vivere situazioni a cui normalmente non avrebbero potuto avere accesso per problemi di carattere logistico, da una festa online, a una conferenza, fino a un concerto. Aimi Hamraie, una studiosa disabile che dirige il Critical Design Lab della Vanderbilt University, nel Tennessee, e che adotta un approccio multidisciplinare alla progettazione per l’accessibilità, così si è espressa al riguardo:

Molte persone non disabili avevano deciso che cose del genere erano inimmaginabili. E poi, da un giorno all’altro, queste cose soni diventate immaginabili per necessità.

Alle parole di Hamraie, fanno eco anche le considerazioni di Andraéa LaVant, consulente per l’inclusione della disabilità a Tempe, in Arizona:

È stata un’opportunità per dire alla gente: Eccoci qui, abbiamo le competenze, abbiamo la conoscenza, abbiamo tutte le cose di cui abbiamo bisogno per rendere migliori i vostri programmi, i vostri lavori e i vostri uffici. Permettere che le persone continuino a lavorare a distanza significa farle lavorare meglio, più comodamente e in maniera già efficace.

L’augurio è proprio quello che questi scorci di un mondo accessibile a distanza e più inclusivo possano essere mantenuti anche in futuro, quando si tornerà alla normalità nell’ottica della costruzione di una società più equa e consapevole, che non sia a misura di alcune categorie, ma tenga in considerazioni esigenze e bisogni di tutte, soprattutto delle persone più fragili.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!