Abbiamo letto un interessante articolo pubblicato su The Vision da Jennifer Guerra, dal titolo L’obiezione è un’incoscienza, se non vuoi praticare aborti puoi fare il dermatologo, ed essendo il nostro un magazine pensato per le donne e che proprio alle donne (ma non solo) parla, naturalmente l’argomento non poteva lasciarci indifferenti e non spingerci ad alcune considerazioni e riflessioni, che vogliamo condividere con voi.

Quello dell’obiezione di coscienza negli ospedali è un tema fra i più spinosi, perché spesso a ragioni di carattere etico, morale, religioso, se ne contrappone un’altra, una sola ma estremamente importante: quella di un diritto, garantito per legge e che come tale deve essere interpretato. Non come un capriccio femminile, ma come una tutela sancita a livello giuridico.

Partiamo dunque proprio da alcuni passaggi significativi dell’articolo comparso su The Vision per analizzare i punti principali della questione:

Il problema dell’obiezione di coscienza è che rende molto difficile per una donna ottenere l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) entro i tempi previsti dalla legge, cioè entro 90 giorni dal concepimento, conteggiati dal primo giorno dell’ultima mestruazione. Posto che non tutte le donne si accorgono subito di essere incinte e che la legge prevede la cosiddetta ‘pausa di riflessione’ di sette giorni tra il rilascio del certificato medico che autorizza l’IVG e la conferma dell’appuntamento, tre mesi non sono poi così tanti, soprattutto se tutto questo percorso già abbastanza complesso da un punto di vista psicologico e pratico viene ostacolato da medici, infermieri, psicologi, personale sanitario e sistema burocratico. Per non parlare di quelli che si mettono fuori dagli ospedali o dalle università con vangeli, immagini di feti photoshoppati male e crocifissi per terrorizzare le donne che vogliono praticare un aborto. Per quanto la legge 194 tuteli l’obiezione di coscienza, essa sancisce chiaramente che ‘Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure’.

Insomma, avere a che fare con medici obiettori quando si decide, per motivi che sono e devono rimanere del tutto personali e insindacabili, significa dilatare i tempi, ma non solo. È fondamentale chiarire un punto che spesso viene frainteso: dichiararsi a favore del diritto all’aborto non significa essere abortisti. Significa invece rispettare il diritto sacrosanto alla scelta di una donna, che non è facile, mai, e soprattutto una legge che, dalla sua esistenza, ha sicuramente tutelato le donne che volevano abortire e, prima della sua approvazione, erano costrette a rivolgersi alla clandestinità, finendo spesso tra le mani di macellai che agivano con strumenti inadeguati, nella più completa mancanza di igiene, mettendo a repentaglio le vite stesse delle donne, talvolta portandole alla morte.

Difendere la 194, quindi, non significa difendere l’aborto, ma il diritto di ogni donna a praticarlo senza dover rischiare la sua vita.

La “soluzione” proposta da The Vision è, sostanzialmente, ragionevole nella sua semplicità:

Ci sono molte altre specializzazioni di medicina altrettanto remunerative che un medico obiettore può intraprendere, se non ha a cuore la vita delle persone che esistono già perché preferisce quelle che devono ancora nascere. Dopotutto, un cristiano ortodosso che considera immorale prelevare organi dai cadaveri non si specializza di certo in trapianti.

Insomma, l’obiezione di coscienza ai tempi della leva obbligatoria aveva tutt’altra connotazione e ragioni ben diverse rispetto a quelle dei medici obiettori, a cui sentiamo di chiedere: se si ha un’idea diversa sull’aborto – perché anche questo è un diritto intoccabile, sia chiaro – non sarebbe forse opportuno scegliere una specializzazione diversa, nel proprio percorso universitario, mettendo in conto che comunque, prima o poi, scegliendo di fare il ginecologo ci si potrebbe comunque ritrovare a dover gestire un caso di IGV?

Questo perché gli aborti, citiamo ancora The Vision, sono “la pratica medico-ginecologica più diffusa dopo il parto”.

Le implicazioni per il sistema sanitario

Fonte: web

Anche volendo per un momento “dimenticare” le possibili conseguenze della presenza di medici obiettori nei reparti ospedalieri di ginecologia, val la pena sottolineare comunque quelle che sono le possibili difficoltà create al sistema sanitario nel suo complesso:

L’obiezione di coscienza del singolo ricade anche sulla gestione del lavoro dell’intero reparto, con conseguenze gravi anche sui non obiettori. L’IVG infatti è una pratica abbastanza semplice e monotona [si pratica in sedazione profonda, con la donna non cosciente ma che respira autonomamente, e consiste nella dilatazione cervicale e nell’aspirazione del materiale embronario, ndr.] e viene considerata generalmente un lavoro poco gratificante. Questo è dovuto al fatto che i pochi ginecologi non obiettori si ritrovano a praticare da soli tutti gli aborti, che vengono percepiti come un lavoro ‘accessorio’ […] In alcuni ospedali, poi, l’obiezione è una scelta di comodo. Molti medici non obiettori si sentono stigmatizzati o esclusi da parte dei colleghi anti-abortisti. Quando questi ultimi occupano posizioni di prestigio all’interno degli ospedali, la carriera dei non obiettori può arenarsi proprio sulla pratica dell’IVG.

Quest’ultimo punto soprattutto spiegherebbe perché spesso la scelta di dichiararsi obiettori non abbia radici religiose o di carattere morale, ma sottenda piuttosto alla salvaguardia di certi interessi personali, fra cui l’avanzamento di carriera.

Quindi non possono esistere medici obiettori?

Fonte: web

Assolutamente sì: il diritto all’obiezione di coscienza è contenuto proprio nella stessa legge 194 del 1978, quella che ha sancito il diritto all’aborto, e ha come presupposto la legge 772 del 1972 che ha riconosciuto il diritto all’obiezione dei cittadini, soprattutto rispetto alla leva militare obbligatoria, cui è stata data l’alternativa del servizio civile. Nel caso dell’aborto, però, il riferimento per gli obiettori è unicamente alla 194, e al codice deontologico della professione medica, che dedica all’argomento un articolo.

Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie – recita l’articolo 9 della 194 – non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione.

Tuttavia, la norma precisa:

La dichiarazione dell’obiettore deve essere comunicata al medico provinciale e, nel caso di personale dipendente dello ospedale o dalla casa di cura, anche al direttore sanitario, entro un mese dall’entrata in vigore della presente legge o dal conseguimento della abilitazione o dall’assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette alla interruzione della gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali che comporti l’esecuzione di tali prestazioni.

Situazione diversa, invece, si profila per i farmacisti obiettori, ovvero coloro che rifiutano di dare la pillola del giorno dopo o dei cinque giorni dopo: queste ultime, infatti, sono, per espressa specifica dell’OMS, non abortive, quindi non sottoposte a obiezione.

Se dunque anche i medici che operano nel settore ginecologico possono dichiararsi obiettori (e in Italia, sostiene The Vision, lo sono ben 7 medici su 10), come si può garantire il rispetto di un diritto che, ripetiamo, è garantito per legge?

Sicuramente, potendo contare su uno staff ospedaliero dove gli obiettori di coscienza siano in minoranza: evitando di fare turni in cui siano presenti solo obiettori di coscienza mentre gli altri medici sono irreperibili per i motivi più disparati, garantendo sempre e comunque alle donne la presenza e l’assistenza di un ginecologo non obiettore, in modo da poter essere seguita presso quella struttura e non di essere “rimpallata” da un ospedale all’altro come nel caso, citato nell’articolo originale, della donna veneta che ha dovuto girare ben 23 cliniche prima di trovare accoglienza.

La virtù, come spesso accade, sta nel mezzo, ossia nel garantire quell’equilibrio sottile ma indispensabile affinché i diritti di nessuno siano lesi. E a chi, molto semplicisticamente, propone “soluzioni” al problema chiosando con poco appropriati “Basterebbe tenere le gambe chiuse, mica abortire”, vorremmo ricordare che sarebbe altrettanto opportuno affermare quindi che “Basterebbe tenerlo nelle mutande”, ma dopotutto a chi consapevolmente pensa ancora tali sentenze c’è davvero poco da dire.

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