Non persona e non cadavere: il dilemma della morte cerebrale
La morte cerebrale è un concetto che nelle cronache spesso ricorre insieme a quello di eutanasia: entrambi aprono a moltissimi dilemmi etici.
La morte cerebrale è un concetto che nelle cronache spesso ricorre insieme a quello di eutanasia: entrambi aprono a moltissimi dilemmi etici.
Che cos’è la morte cerebrale? Non si tratta di un argomento semplice: questo tipo di concetti aprono a enormi dilemmi etici. Aeon, in un lungo articolo, ricostruisce, attraverso alcuni esempi di cronaca passata, cosa sia la morte cerebrale e come i medici siano arrivati a formulare questo concetto.
La prima storia riportata riguarda Jahi McMath, che aveva 13 anni nel dicembre 2013, quando le venne fatta una tonsillectomia. La ragazzina, dopo l’intervento, iniziò a sanguinare. I suoi livelli di ossigeno calarono pericolosamente e fu attaccata a un respiratore. Tre giorni dopo, i medici ne decretarono la morte cerebrale.
In pratica tutte le funzioni del suo cervello erano morte. La famiglia però non lo accettò e anzi si diffuse tra l’opinione pubblica il sospetto che la scelta dei medici fosse dovuta a ragioni razziali (Jahi era afroamericana). La ragazzina spirò oltre quattro anni più tardi e dopo numerose battaglie legali affinché fosse riconosciuto che Jahi era profondamente disabile e non cerebralmente morta. Cosa che alla fine avvenne: dopo altri pareri medici, una neurologa somministrò alla ragazza delle sostanze nutritive, scoprendo che in effetti non era morta. Questa storia ci apre a un interrogativo: una persona muore quando il suo cervello smette di funzionare oppure quando il suo cuore smette di battere?
Il concetto di morte cerebrale fu coniato nel 1968 alla Harvard Medical School. In pratica: attraverso questo concetto, i pazienti potevano essere dichiarati cerebralmente morti, perché il loro cervello aveva smesso di controllare l’organismo, ma gli altri organi venivano tenuti in vita col respiratore artificiale anche in vista di un trapianto che avrebbe salvato la vita ad altre persone. Chiaramente la donazione di organi è un gesto altruistico ed encomiabile, ma mettiamoci nei panni di amici e parenti di Jahi, come di altre persone che hanno vissuto un’esperienza simile: ci rassegneremmo a una morte che non riusciamo a comprendere o avremmo dei dubbi su “staccare la spina” a una persona che amiamo?
L’argomento è affine con la questione dell’eutanasia, anch’essa molto complicata. In Italia, quando parliamo di eutanasia, di solito portiamo due esempi come casi limite, Eluana Englaro ed Emanuela Lia, entrambe in coma per anni ma con reazioni diversissime: è stato spesso detto che Eluana non reagiva a stimoli esterni, mentre Emanuela, pur “addormentata”, appariva costantemente vigile.
I genitori delle due ragazze ebbero anch’essi orientamenti molto diversi: mentre gli Englaro aprirono pubblicamente il dibattito per il fine vita, i Lia hanno rappresentato un grosso caso per la letteratura scientifica ed etica, sostenendo la figlia fino alla fine. In ogni caso, in Italia non c’è ancora una legislazione sul trattamento del fine vita, ed è anche per questo che qui da noi il dibattito sulla questione non è solo etico ma anche e soprattutto politico.
Quando una persona è in coma per molto tempo oppure viene dichiarata cerebralmente morta, viene utilizzata una macchina, un respiratore inventato in realtà per aiutare coloro che vivevano nel polmone d’acciaio come conseguenza della poliomielite. In seguito, negli anni ’60, iniziò a essere utilizzato anche per mantenere in vita dei pazienti in condizioni precarie. Fu nello stesso periodo che apparvero degli studi a sostegno del concetto di morte cerebrale: secondo molti medici, i pazienti il cui cervello aveva smesso di funzionare dovevano essere considerati morti e il respiratore andava utilizzato fino al trasferimento degli organi in altri pazienti bisognosi.
Fino a oggi – si legge su Aeon – i criteri clinici utilizzati per fare una diagnosi di morte spesso rimangono in contrasto con la definizione più ampia e culturalmente concordata della morte detenuta dalle famiglie dei pazienti. La morte cerebrale ha reso la morte infinitamente complicata perché un corpo può essere caldo, avere il colorito normale e tuttavia essere considerato morto dai medici.
Intanto, a metà degli anni ’70, i respiratori sono diventati parte dell’equipaggiamento standard in terapia intensiva, nonostante ieri come oggi i dilemmi etici restino aperti. Perché in effetti, nonostante venga decretata la morte cerebrale, un respiratore può tenere in vita mesi, anni, o decenni un paziente. E la lotta etica continua tra medici e famiglie. Ed è una lotta contro il tempo, e il tempo è denaro. Non è un luogo comune: negli ospedali le cure comportano un costo e a volte i medici non possono dare alle famiglie il tempo che è loro necessario per comprendere o per cercare un secondo parere oppure semplicemente una strada diversa.
Un altro caso citato da Aeon è quello di Karen Ann Quinlan, che entrò in coma a 21 anni per aver ingerito tranquillanti e alcol. Fu collegata a un respiratore nel 1975 e ci restò per un anno, ma non fu mai dichiarata cerebralmente morta. Tanto che, una volta staccata dal respiratore, continuò a vivere, in uno stato vegetativo persistente (cioè viva ma non completamente consapevole di ciò che accadeva intorno a lei) fino al 1985. Chiaramente questo caso ha sollevato un interrogativo importante: e se si avesse troppa fretta a “staccare la spina”? E se i medici sbagliassero? Chi dovrebbe decidere se continuare a provare?
Uno studio del 1998, iniziato proprio sulla scorta del caso Quinlan, ha dimostrato che, mentre le condizioni di alcuni pazienti apparivano simili a una morte cerebrale, i loro corpi mantenevano un flusso sanguigno sufficiente a prevenire il deterioramento del cervello. Grazie alle nuove tecnologie di imaging, nel 2002, i neurologi hanno iniziato a parlare di «stato minimamente consapevole» per alcuni di quei pazienti che fino ad allora venivano dichiarati cerebralmente morti. La scelta di una terminologia così specifica è stata adottata anche per venire incontro alle famiglie: ci si chiede in questi casi cosa senta il proprio congiunto e queste etichette possono aiutare a capire.
Per quanto ci sforziamo di capire però, resta un fatto: gli interrogativi restano aperti ed è come se medicina, politica e amore famigliare siano tre microcosmi incapaci di incontrarsi con tutte le loro dinamiche e diversità.
Vorrei vivere in un incubo di David Lynch. #betweentwoworlds
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