Morbo di K, la malattia immaginaria che salvò molti ebrei romani dai nazisti

Il morbo di K, malattia inventata, permise a due coraggiosi medici del Fatebenefratelli di Roma di salvare molte persone dal rastrellamento del ghetto. I nazisti erano infatti troppo intimoriti dalla sindrome per controllare l'identità dei pazienti nascosti nei reparti dell'ospedale.

16 ottobre 1943: sono le prime ore del mattino dello Shabat, il sabato, giorno del riposo per gli ebrei, quando le truppe tedesche fanno irruzione nel ghetto di Roma per un rastrellamento. Siamo nel post 8 settembre e la furia nazista, dopo la caduta del fascismo, è ai suoi massimi, come possono testimoniare le varie stragi compiute dalle SS in quel periodo, dalle Fosse Ardeatine, per rimanere nella capitale, fino a Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto.

Nel ghetto i tedeschi prendono quanti più ebrei possibile, grazie all’elenco dei loro nominativi forniti dal Ministero dell’Interno del governo Mussolini. Vengono sequestrate in tutto 1.024 persone, fra cui 200 bambini, che verranno deportate ad Auschwitz.

Fra loro, solo 16 furono i sopravvissuti che poterono, a posteriori, raccontare la drammaticità di quell’evento.

In quelle ore terribili furono in molti a cercare riparo all’Ospedale Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina; e due medici, uno già affermato, e un altro alle prime armi, riuscirono in effetti a salvare molte vite, grazie a un espediente particolare: il morbo di K, una malattia totalmente inventata, ma di cui i tedeschi ebbero una gran paura.

Origini e storia del morbo di K

A inventare la malattia, basandosi sui nomi di due ufficiali tedeschi, Kesselring e Kappler, furono il primario del Fatebenefratelli Giovanni Borromeo e l’allora studente Adriano Ossicini, che diventerà poi un noto politico italiano, antifascista e membro della Resistenza, e che racconterà proprio la storia di questo fantomatico morbo. Ossicini, peraltro, per un periodo verrà anche arrestato dai nazisti, e rilasciato solo grazie ai suoi buoni rapporti in Vaticano.

Lui e Borromeo compilarono false cartelle cliniche con il nome della malattia, definita “contagiosissima“, così da scoraggiare i nazisti dal controllo dei nomi. La finta malattia ebbe il risultato sperato sui soldati della Gestapo, che ne furono letteralmente terrorizzati.

I medici cominciarono ad accogliere in ospedale i fuggitivi, diagnosticando loro una pericolosa malattia, la sindrome di K; come abbiamo detto, lo spunto per il nome lo avevano dato proprio Kesselring, il generale nazista incaricato di mantenere il controllo dell’Italia occupata difendendola dall’avanzata delle truppe Alleate che giungevano da Sud, ed Herbert Kappler, il tenente colonnello delle SS a capo della Gestapo a Roma che guidò la retata.

I tedeschi, ovviamente, lo ignoravano: l’iniziale K evocava in loro solo la malattia di Koch, ovvero la tubercolosi, e ciò era sufficiente per far uscire la loro ipocondria. Ad accrescerla contribuì l’ottima “recitazione” dei medici, che intimarono ai soldati di non accedere ai reparti in cui erano ricoverati i pazienti, estremamente contagiosi.

La storia è stata confermata nel 2004 anche dal medico ebreo Vittorio Sacerdoti, all’epoca appena ventottenne, che in un’intervista per la BBC in occasione del 60° anniversario del rastrellamento nel ghetto di Roma disse:

Il giorno in cui i nazisti arrivarono in ospedale qualcuno venne nel nostro studio e disse: ‘Dovete tossire, tossire continuamente perché questo li spaventa, non vogliono contrarre una pericolosa malattia e non entreranno’. I nazisti pensarono che fosse cancro o tubercolosi, e scapparono come conigli.

I presunti sintomi del morbo di K

Com’è stato possibile, per Borromeo e Ossicini, far risultare credibile una malattia totalmente inventata? Come ogni sindrome che si rispetti, anche il morbo di K aveva i suoi sintomi. Come detto, per rendere credibile il tutto fu prima di ogni cosa allestito un reparto, in cui trovarono spazio gli ebrei e i polacchi, ovviamente sotto falso nome, che rimanevano ricoverati il tempo necessario a far arrivare i documenti d’identità falsi che avrebbero dato loro il via libera.

Si inizi a parlare del famigerato morbo di K un giorno, quando due camion di SS organizzarono un blitz, occupando l’ospedale, per controllare uno a uno tutti i malati. Borromeo, che parlava il tedesco in maniera eccellente, spiegò ai soldati che molti pazienti erano affetti da una malattia estremamente contagiosa, descrivendo i connotati tipici della malattia neurodegenerativa, con convulsioni iniziali e in alcuni casi una fase di demenza, che sarebbe arrivata poi a degenerare, nelle fasi successive, nella paralisi completa degli arti, fino alla morte per asfissia.

Grazie a questo stratagemma, nessuna SS ispezionò il padiglione.

Quanti furono salvati dal morbo di K?

Non si conosce precisamente il numero dei “pazienti” salvati grazie all’espediente di Borromeo e Ossicini, ma le testimonianze raccontano di almeno 45 persone risparmiate da morte certa (anche se potrebbero essere state molte di più). Di certo c’è che nel 2004 lo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele, ha riconosciuto Giovanni Borromeo come “giusto”, per l’aiuto prestato a cinque membri della famiglia Almajà-Ajò-Tedesco; nel 2007 il figlio di quest’ultimo, Pietro, ha pubblicato una storia basata proprio sulle sue memorie e su quelle attribuite al padre.

Nel giugno 2016 il Fatebenefratelli è stato insignito del titolo di “Casa di vita” dalla Fondazione internazionale Raoul Wallenberg, proprio per il ruolo fondamentale svolto nel salvataggio di quelle persone.

Infine, una curiosità: pare che persino parte del personale medico fosse all’oscuro del fatto che il morbo di K non esistesse; stando alle testimonianze raccolte dalla giornalista del Messaggero Ilaria Ravarino, infatti, molti degli operatori del nosocomio erano stati informati solo dell’esistenza di una malattia pericolosissima e contagiosa, così da incutere ancor più veridicità e timore alla storia. Giacomo Sonnino, protagonista del documentario Sindrome K, il virus che salvò gli ebreiqui un breve estratto, il documentario è disponibile su Discovery+ – ​racconta:

 Il problema più grande per noi era trovare da mangiare. Ogni tanto con mio fratello uscivamo dai sotterranei per fare cicoria, che poi cucinavamo con il carbone rubato alle cucine dell’ospedale.

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