Medicina razziale: quando i pregiudizi su cure e dolore inficiano le cure

Nonostante sia ormai ampiamente documentato che non esistono razze umane, molti medici continuano a trattare i pazienti in maniera diversa in base all'etnia di appartenenza. E negli USA c'è persino un farmaco pensato solo per gli afroamericani.

Facciamo una piccola precisazione prima di entrare nel tema di questo articolo: abbiamo ormai piena consapevolezza del fatto che la “razza” non esista, perciò useremo questo termine, virgolettato, solo riportando studi e citazioni, ben sapendo che sia dispregiativo oltre che biologicamente scorretto.

Parliamo di un fatto ormai appurato, confermato da biologi, antropologi, genetisti ed evoluzionisti, dimostrato a più riprese, tra gli altri, anche da genetisti del calibro di Richard Lewontin e Luigi Luca Cavalli-Sforza. Sulla base di studi antropometrici, di genetica e di popolazione, non è possibile definire razze precise all’interno della specie umana.

Eppure, il mondo medico parla ancora di razze in riferimento a cure e farmaci, tanto che è tuttora attuale il termine medicina razziale.

Cos’è la medicina razziale?

Nonostante ci siano Paesi, come la Francia, che già dal 1978 ha vietato, per legge, ogni censimento basato sull’etnia dei cittadini, e nonostante la sentenza della Corte suprema americana del giugno 2007, che ha imposto al Governo di adottare un approccio colorblind nei processi di policymaking, nel mondo medico-scientifico c’è ancora una buona fetta di professionisti che ritengono che alcune persone siano più o meno predisposte a malattie, o rispondano meglio a cure e terapie, su basi puramente razziali.

A nutrire questo falso mito anche alcune evidenze storiche, come, ad esempio, il tasso di mortalità inferiore rilevato nella popolazione nera degli Stati Uniti durante la “spagnola” del 1918-19; ma la storica Rana Hogarth, in Medicalizing Blackness, ha compiuto un ulteriore percorso ancora più a ritroso nel tempo, parlando della medicina razziale sviluppata nell’800 dal consulente medico degli Stati del Sud Samuel Cartwright, che in campo psichiatrico descrisse la drapetomania, patologia che avrebbe spinto gli schiavi a “vagabondare in cerca della libertà”, dimostrando al contempo, su presunte basi fisiologiche, come questi ultimi fossero più predisposti al lavoro nelle piantagioni.

Del resto già nel secolo precedente uno dei padri degli USA, Thomas Jefferson – le cui statue sono poi state imbrattate e distrutte con l’acuirsi delle violenze derivanti dal movimento Black Lives Matter proprio per il razzismo implicito nei suoi scritti – nelle sue Note sullo Stato della Virginia avrebbe teorizzato come i neri reagissero meglio al calore rispetto ai bianchi, e peggio al freddo.

Nello stesso periodo emerse anche la cosiddetta teoria dell’immunità nera, durante un’epidemia di febbre gialla a Filadelfia, in cui, dopo un’impennata nel numero dei morti, Benjamin Rush, direttore dell’Istituto di Medicina, convinto abolizionista e firmatario della Dichiarazione di Indipendenza, dichiarò che gli afroamericani fossero immuni alla malattia, reclutandoli, con l’aiuto di alcuni leader della loro comunità, per prendersi cura dei cittadini bianchi rimasti in città, lavorando come infermieri, carrettieri e scavatori di tombe.

Medicina razziale e razzismo scientifico

Anche in tempi più recenti, comunque, il concetto di razzismo scientifico non è passato d’attualità, anzi negli ultimi anni si fa spesso riferimento alla farmacogenetica, esaminando quindi come le variazioni genetiche ereditate possano influenzare la capacità delle persone di rispondere a un farmaco, per cui si spiegherebbe anche perché, sulla base di determinati modelli genetici, una persona possa reagire a un farmaco e un’altra lamentarne effetti negativi.

Se si volesse compiere una ricerca sul sito ufficiale della FDA (U.S. Food & Drugs Administration), si potrebbe scoprire che, formalmente, dal 2018 il mondo della medicina è suddiviso in razze, come scritto esplicitamente anche nella guida Collection of Race and Ethnicity Data in Clinical Trials (Raccolta di dati relativi alla razza e all’etnia in Test clinici), pubblicata a ottobre del 2016 e citata anche in altre pubblicazioni di fine 2017: l’umanità sarebbe divisa in cinque razze: Indiani d’America o Nativi d’Alaska, Asiatici, Neri o Afro-Americani, Nativi Hawaiiani o delle isole del Pacifico e Bianchi, e i pazienti si possono identificare facilmente nella “razza” di appartenenza rispondendo a semplici domande come

  • Domanda 1: Consideri te stesso Ispanico/Latino o non Ispanico/Latino?
  • Domanda 2: Quale delle seguenti cinque categorie razziali ti descrive nel modo migliore? Si accetta più di una risposta.

Visto l’altissimo grado di generalizzazione è difficile pensare a una teoria del genere come “affidabile”; è quanto sostenuto anche dalla sociologa Dorothy Roberts durante un Ted Med del 2015:

I sociologi come me hanno a lungo spiegato che la razza è un costrutto sociale. Identificando la gente come bianchi,  neri, asiatici, nativi americani, latini ci riferiamo a gruppi sociali con delimitazioni fittizie che sono cambiate nel tempo, e che variano in giro per il mondo […] Ci sono test medici che usano la razza per curare pazienti neri, bianchi o asiatici in modo diverso, solo a causa della loro razza. La medicina razziale rende i pazienti neri molto vulnerabili a bias e stereotipi. I pazienti neri e latino americani sono doppiamente a rischio di non ricevere antidolorifici, rispetto ai bianchi, per le stesse dolorose fratture al femore, a causa di stereotipi per i quali neri e mulatti sentono meno il dolore, esagerano sul dolore e sono predisposti alla tossicodipendenza.

In effetti, la tesi che i neri sentano meno il dolore è stata suffragata anche da uno studio del 2016 che ha esaminato 60 milioni di visite in pronto soccorso di pazienti tra 18 e 65 anni dal 2007 al 2011, rilevando che le persone nere hanno la metà delle possibilità che venga loro prescritto un antidolorifico. Le ipotesi più accreditate alla base di questa situazione sono che i medici temono che i neri possano abusare dei farmaci, o non riconoscano effettivamente il dolore a causa delle differenze culturali.

Non è un discorso diverso da un altro tipo di discriminazione, quello del dolore delle donne, che abbiamo affrontato in questo articolo, e che si base sullo stesso tipo di pregiudizi, stavolta non razziali ma di genere.

Il pregiudizio è presente anche negli algoritmi alla base della programmazione dei costi sanitari, come evidenziato in un articolo di Science di Ziad Obermeyer, dirigente della School of Public Health della University of California. analizzando 50.000 cartelle cliniche, Obermeyer ha dimostrato come l’algoritmo che stabilisce le priorità su cui investire le risorse sanitarie sulla quantità delle loro spese mediche, assegnando ai neri un livello di rischio più basso, perché ritenuti più sani.

In questo modo, nella pratica, gli afroamericani hanno una riduzione di circa 1800 dollari pro capite annuale sulle risorse sanitarie.

Le manifestazioni della medicina razziale

Pensare che una persona, solo in virtù dell’etnia di appartenenza, possa provare meno dolore o essere più o meno resiste a un certo tipo di farmaci è già di per sé piuttosto discriminatorio e razzista; ma c’è di peggio, nelle numerose manifestazioni della medicina razziale. Spiega ancora Roberts:

Per esempio la stima della velocità di filtrazione glomerulare, o GFR: di norma i dottori interpretano il GFR, questo importante indicatore della funzione renale, secondo la razza. Lo stesso esatto livello di creatina, la concentrazione nel sangue del paziente, produce automaticamente una diversa stima del GFR a seconda che il paziente sia afroamericano o no. Mi è stato spiegato che questo assunto si basa sull’idea che i neri abbiano maggiore massa muscolare delle persone di altre razze. Ma che senso ha per un dottore presumere automaticamente che io abbia più massa muscolare di una culturista?

medicina razziale
La slide mostrata da Dorothy Roberts al Ted Med 2015

C’è di più: negli USA è stato persino commercializzato un farmaco approvato dalla Food & Drug Administration appositamente per i neri, il BiDil, di cui si parla anche in un celebre episodio di Dr. House.

In quell’episodio del 2005 un paziente nero rifiuta il BiDil, dicendo “Non voglio comprare farmaci razzisti, ok?. House risponde: “È razzista perché aiuta i neri più dei bianchi? È meglio morire per una questione di principio?”. La replica del paziente è estremamente significativa: “Guardi. Il mio cuore è rosso, il suo cuore è rosso. Non ha senso prescrivere farmaci diversi”

L’associazione persistente tra appartenenza razziale e malattie conduce spesso i medici anche a clamorosi errori, come le mancate diagnosi, nei neri, di fibrosi cistica, ritenuta tutt’oggi una malattia tipica dei bianchi.

Medicina razziale: come superarla?

La medicina razziale dipende da un sacco di fattori diversi, che spesso operano di concerto, ed è per questo che gli interventi devono riguardare i molteplici modi in cui i pregiudizi influenzano l’assistenza sanitaria; in primo luogo è importante intervenire sull’approccio sui medici. In questo senso alcuni strumenti sono già stati messi in atto, come l’introduzione di più corsi sulla disparità razziale nei curriculum di molte scuole di medicina, al fine di rilevare le discriminazioni passate per non perpetuarle.

Tuttavia, i medici potrebbero portare avanti bias in modo del tutto implicito, come sovrastruttura ormai metabolizzata, notabili solo nei comportamenti verbali e non verbali più sottili; piuttosto che eliminarli, come suggerisce questo documento di NCBI, gli interventi sulla formazione dei medici dovrebbero portare a sviluppare tecniche e abilità specifiche per limitare l’impatto del pregiudizio implicito del medico quando interagisce con un paziente nero.

La soluzione, solo apparentemente scontata, è vedere il singolo paziente solo come individui, e non come rappresentante di una categoria.

Ci sono però anche approcci centrati sul paziente, così da renderlo meno vulnerabile agli effetti del bias; per via di alcune precedenti esperienze di discriminazione, spesso i pazienti neri avvertono una minaccia stereotipata negli incontri medici, indicando, con questo termine, la percezione avvertita da un gruppo stereotipato che teme di essere giudicati in base a quel cliché, che sarà confermato da ogni possibile “passo falso”.

Può capitare che, durante le visite mediche, un paziente nero si preoccupi di non confermare gli stereotipi negativi dei neri come ostili o poco intelligenti, e lo stress provocato da questa preoccupazione potrebbe manifestarsi come un’apparente freddezza, disattenzione o mancanza di rispetto. I pazienti che si sentono minacciati da stereotipi possono essere riluttanti a porre domande o fornire volontariamente informazioni mediche pertinenti, con la conseguenza di avere effettivamente risposte negative da parte del medico.

Un modo per ridurre la minaccia degli stereotipi e rafforzare l’autointegrità di una persona è affermare importanti valori personali. Ad esempio, le persone identificano i valori che le caratterizzano meglio e poi scrivono un paragrafo sul perché questi valori sono importanti. L’affermazione dei valori può riuscire a far affrontare la minaccia degli stereotipi nell’assistenza sanitaria.

In uno studio di Havranek del 201, ad esempio, i pazienti neri con ipertensione hanno completato un esercizio di affermazione dei valori poco prima di una visita regolarmente programmata. La comunicazione paziente-medico è stata quindi valutata codificando la successiva conversazione. I pazienti che hanno completato l’esercizio di affermazione dei valori hanno richiesto e fornito maggiori informazioni sulle loro condizioni mediche e hanno avuto interazioni più positive nel tono emotivo.

Naturalmente la prospettiva più importante da tenere in considerazione è proprio quella di eliminare una distinzione “noi e loro”, parlando solo di “noi”, creando quindi un’identità di gruppo comune; è altrettanto chiaro, però, che anche le scelte politiche devono intervenire per eliminare le potenziali cause delle disparità sanitarie.

I grandi sistemi sanitari ora forniscono almeno il 65% dell’assistenza sanitaria privata negli Stati Uniti, e questa è una percentuale che con tutta probabilità tenderà a crescere nei prossimi anni. Questi sistemi hanno in genere un’unica struttura amministrativa che gestisce più ospedali e cliniche. La crescita di grandi sistemi sanitari, in particolare quelli di proprietà di grandi società di investimento a scopo di lucro, preoccupa molti professionisti nel settore della sanità pubblica proprio perché si teme che le grandi corporation possano sacrificare un’assistenza sanitaria di alta qualità in nome del profitto.

Tuttavia, secondo NCBI potrebbe essere anche la giusta opportunità per ridurre le disparità razziali nell’assistenza sanitaria, ad esempio aggregando dati e informazioni per rendere evidenti eventuali disparità razziali, visto che i grandi sistemi sanitari sono in grado di raccogliere dati estesi sui trattamenti e sugli esiti, così da individuare subito disparità razziali e risolverle.

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