Abbiamo parlato spesso di disturbi mentali, mettendoci però sempre nell’ottica del malato, della persona affetta da una problematica psichica.
Lo abbiamo fatto ritenendo sia un passo importante al fine di abbattere lo stigma sociale che ancora riguarda la malattia mentale in tutte le sue forme, considerando che dare voce a chi ne è affetto potesse contribuire a fare informazione e, perché no, educazione sul tema.
La realtà, però, è che se le condizioni di vita di queste persone oggi sono notevolmente migliorate, se nelle strutture in cui talvolta sono ospitati non vengono più percepiti come “matti”, ma semplicemente come pazienti, e riescono a relazionarsi con il mondo aprendosi anche sul proprio problema, il merito è degli operatori che lavorano al loro fianco giorno dopo giorno.
Sono loro, medici, infermieri, personale ospedaliero, a seguirli passo passo in un percorso di terapia, di recupero, o di sostegno. E proprio loro sono i protagonisti di un progetto portato avanti dal collettivo fotografico In to the frame, di cui abbiamo già parlato a proposito di FotograficaMente, l’altra parte della medesima idea, sviluppata però a partire dalle testimonianze dei malati.
Davide, Nicola e Rossella hanno voluto raccontare anche il contributo, preziosissimo, di chi si trova “dall’altra parte della barricata”, di chi deve curare, assistere, rieducare. Allo scopo, ancora una volta, di abbattere pregiudizi e stereotipi nell’ambito della salute mentale.
Quando cerchiamo di immaginare un luogo di cura per persone affette da disturbi mentali senza mai averne visitato uno, in un modo o nell’altro, è probabile che nella nostra mente inizi a prender forma l’immagine di un qualcosa che si avvicini grossomodo a un comunissimo reparto ospedaliero di stanzoni stracolmi di individui deliranti e corridoi pullulanti di infermieri e dottori avvolti nei loro tipici camici bianchi – ci raccontano – lo stereotipo del manicomio, per intenderci.
Nel momento in cui però mettono piede nel Centro di Salute Mentale di Termoli, Campobasso, loro per primi si rendono conto che le cose sono ben diverse.
Sì, anche in questo caso esiste un reparto di psichiatria, e si chiama SPDC (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura), è distaccato da tutto il resto e si trova all’interno dell’ospedale cittadino. Abbiamo visitato anche quello, e pensiamo vi basti sapere che di recente gli utenti del Centro, assieme agli operatori di riferimento, ne hanno affrescato le pareti con disegni e raffigurazioni colorate.
Non staremo qui a raccontarvi quanti e quali spazi abbiamo visitato durante la fase di raccolta del materiale utile al nostro progetto, né a descriverne le rispettive caratteristiche e le qualità corrispondenti, ma ci soffermeremo sugli operatori – quelli col camice bianco – che insieme, ognuno con le proprie competenze, accompagnano l’utente nel proprio percorso terapeutico.
Facciamo una precisazione doverosa: un operatore del Centro di Salute Mentale, a prescindere dal ruolo che ricopre, non si limita a svolgere la propria mansione meccanicamente e in maniera distaccata, ma si preoccupa anche, e soprattutto, di instaurare e coltivare rapporti umani più o meno profondi e radicati con chi gli sta attorno.
In diverse occasioni ci siamo sentiti dire: ‘Qui dentro ciò che conta più di ogni altra cosa sono le relazioni, poi c’è anche il resto’.
La testimonianza dei ragazzi di In to the frame prosegue:
Entri nel CSM di Termoli e di camici bianchi nemmeno l’ombra, non riesci a distinguere gli infermieri dagli psichiatri, gli assistenti sociali dagli psicologi, o dai volontari del servizio civile, dai professionisti che collaborano con loro per i motivi più svariati o da chi è solo di passaggio.
In questo microcosmo così diverso da ciò che nel nostro immaginario sono “i manicomi”, Davide Nicola e Rossella raccolgono storie preziose, di persone che, con il proprio lavoro, cercano quotidianamente di migliorare la vita dei malati. Lungi dal considerarli solo come tali, ma prima di tutto come qualcuno di cui prendersi cura, e a cui voler bene.
Sfogliate la gallery per leggere le testimonianze raccolte nel progetto di In to the frame.
Il dottor Bianconi: "Mi piace pensare che le persone non sappiano chi è il paziente e chi l'operatore"
Il dottor Alessio Bianconi, psicologo psicoterapeuta, ha raccontato con uno strano paradosso – efficace ed esplicativo – il suo arrivo al Centro Socio-Lavorativo Francesco Auciello, satellite del CSM, e l’input che ha spinto lo staff a trasformare quella particolare struttura per portarla al suo stato attuale:
Quando sono arrivato qui avevo delle paure, ero il primo ad avere delle paure, e il paradosso è questo, che uno si deve prendere cura di una persona, a livello psichico, e ha paura. Allora se ho paura io, che sono formato, come reagisce il territorio rispetto alle persone che soffrono di disturbi che non hanno origine organica, dato che nel nostro tempo ancora non si è capito da dove vengono il male della schizofrenia, il male del bipolarismo e delle altre patologie severe?
Allora, partendo da questo presupposto, ho pensato, insieme ai colleghi, cos’è che potrebbe far avvicinare a una persona? Penso che quando si scambiano, in un determinato luogo, affetti, piaceri condivisi, interessi comuni, si va su un luogo di altro della relazione, che non sia la malattia. Il mio modo di stare nel territorio è quindi far scoprire che le persone hanno delle passioni, hanno delle capacità anche più grandi delle mie, in alcuni ambiti, e lasciare che queste persone possano arricchirmi di mondi che io non conosco. Io tante cose le ho davvero apprese dalle persone che vengono qui, una ricchezza meravigliosa.
Allora cercare di far vedere questo al mondo, cercar di far relazionare le persone per le loro capacità, le loro competenze, credo che sia il miglior modo per avvicinare. Così quella persona non ha più quell’etichetta data da una diagnosi medica, che è funzionale soltanto all’interno delle istituzioni per comunicare, ma diventa un soggetto con un’identità chiara, ed è bello vedere se poi, quando le persone ci conoscono, dicono: non sappiamo chi sono i pazienti e chi sono gli operatori.
Cam e Jorge, che fanno sorridere le persone
Cam e Jorge sono dei maestri di teatro, girano il mondo per portare quest’arte tra le persone cosiddette “disagiate”.
Da due anni collaborano con il Centro Diurno Chesensoha, altro satellite del CSM, a un progetto di teatro sociale in cui coinvolgono gli utenti, alcuni dei loro famigliari, e gli operatori.
Non è la prima volta che noi lavoriamo con il Centro di Salute Mentale, lo abbiamo già fatto negli anni in altri luoghi, non è la prima volta che lavoriamo in contesti dove l’aspetto, diciamo, della malattia, è presente nella componente dell’essere umano. Per noi lavorare in un Centro Diurno, così come lavorare in una casa famiglia, lavorare in uno S.P.R.A.R., come lavorare in un università, in una scuola o in un centro sociale, o un campo profugo – come all’estero lavoriamo da tantissimi anni – non fa una differenza enorme, perché l’essere umano è l’essere umano e il suo bios agisce e reagisce con quello che è l’ambiente intorno, e quello che noi possiamo fare è, nella reciprocità, arricchendoci vicendevolmente, donarci delle strategie per poter vivere meglio.
Jorge aggiunge:
È chiaro che, come da situazione stereotipata, c’è qualcuno che si occupa del cosiddetto disagio sociale, psicologico, o come volete chiamarlo. Per noi sono tutti spazi estetici, con le loro particolarità, come tutti i partecipanti che hanno le loro particolarità, anche i bambini di 5 anni hanno le loro particolarità, alcuni delle volte si trovano in periferie dove qualsiasi diritto del bambino è negato, delle volte vivono in zone più agiate, ma anche lì esistono delle situazioni per cui il sostegno alla creatività, alla corretta crescita dello schema corporeo, al realizzare noi stessi nella realtà e non essere nella dinamica dell’omologazione, sono negati. Sì, è sempre un’opportunità lavorare nei vari contesti sociali, perché noi abbiamo rilevato che, nei luoghi cosiddetti luoghi di benessere o dell’alta società, ci sono dei malesseri, così come ci sono dei malesseri nelle zone emarginate dei quartieri delle città in Italia e all’estero.
Roberta: "La malattia mentale faceva paura a noi per primi"
Roberta Canton è un’ infermiera che opera all’interno del Centro da ormai tredici anni. Dopo aver lavorato in ambiti differenti: dalla geriatria all riabilitazione, fino all’hospice e all’assistenza domiciliare, ha deciso di dedicarsi all’assistenza al malato psichiatrico:
È corretto essere arrivata solo adesso in questa realtà, perché è una realtà che ti dà molto, ma che dal punto di vista professionale è assolutamente diversa da tutte le altre. Certamente la malattia mentale fa paura, fa paura a tutti, primi noi… E una cosa, oltre a far paura, se non la conosci fa ancora più paura. E non ti rendi conto che in fondo è una paura indotta, molto spesso, dalla cultura.
Perché la cultura che noi abbiamo adesso è una cultura che non permette di essere diversi, non lo permette in nessun modo, nonostante sembra apparentemente non sia così. Culture più primitive accettano il paziente, la persona con problemi di malattia mentale, molto più facilmente rispetto alla nostra, però se tu conosci il problema, il problema diciamo che diventa la metà di quello che è, e uno dei fini di questo servizio è proprio farsi conoscere, in questi anni questo abbiamo cercato di fare: farci conoscere, far conoscere le persone, far conoscere la malattia, proprio per non temerla.
Maddalena, l'assistente sociale e quella volta con l'ascensore bloccato...
Maddalena Molinero è un’assistente sociale. Dopo il tirocinio al Centro Diurno durante gli studi universitari ha deciso di tornarci come volontaria del Servizio Civile:
Iniziare il servizio civile per me è stato un cambiamento di vita, perché ho lasciato la città universitaria dove vivevo, sono tornata a casa, ed è stato il mio primo approccio con il mondo del lavoro, la prima esperienza in assoluto. È cambiato tutto perché se penso a come ero io cinque anni fa, quando è iniziata questa esperienza, credo di non poter più tornare indietro, per me sarebbe difficile oggi pensare di fare un altro lavoro, di lavorare in un altro contesto, di fare l’assistente sociale in un altro settore, perché ho trovato quasi il mio habitat naturale.
Maddalena ha voluto raccontare un aneddoto per far comprendere davvero la sua realtà.
Un giorno è successo che due pazienti sono rimasti chiusi nell’ascensore di questo edificio. Io ero qui sola, in quel momento, e quindi sono stata chiamata. Mi sono subito allarmata, sia perché ero preoccupata per le persone che erano nell’ascensore, ma anche perché per me l’ascensore è un po’ un tabù, anch’io ho molta paura di rimanere chiusa in ascensore. Le due persone che erano lì dentro mi preoccupavano un po’, soprattutto perché una delle due non era in grado di comunicare verbalmente con me, ma solo scrivendo. Quindi c’è stato un po’ di trambusto e siamo riusciti ad aprire un piccolo varco nella porta dell’ascensore e a vedere le persone che stavano dentro. Stavano bene, però una delle due era molto molto agitata, e dato che i tecnici facevano fatica ad arrivare in tempi brevi bisognava gestire la situazione.
Quindi c’è stato un momento, per me, molto carino e intenso, tra me e questa persona, con cui, tra l’altro, non avevo un vero e proprio rapporto, perché non mi occupavo direttamente di lei, e il fatto che questa persona facesse fatica a comunicare con me, devo dire mi bloccava anche un po’ nel costruire una relazione con lei.
Però quella è stata l’occasione, appunto, per costruire una relazione, e quindi sono stata un’ora, che poi a me è sembrato un tempo infinito, stringendo la sua mano e ricevendo i suoi bigliettini con scritto ‘aiuto, ho paura’. Quindi ho dovuto mettere da parte la mia paura e cercare in qualche modo di rassicurarla attraverso la musica, attraverso le mie parole. Questo è stato un momento, per me, significativo, perché mi ha fatto entrare in relazione con questa persona, che mi ha ringraziato come se io fossi stata una salvatrice, quando in realtà non ho fatto niente di che.
Quindi un momento difficile, di panico quasi, in cui non c’era molto da fare, mi ha dato poi l’opportunità di relazionarmi con una persona e pormi anche come una risorsa nei suoi confronti. Questo, secondo me, è importante, proprio perché sottolinea quanto gli operatori della salute mentale, le persone che lavorano in questi contesti, non hanno quell’approccio che magari può immaginare chi non conosce questo mondo, quindi del professionista dietro la scrivania che dà delle risposte, dà delle soluzioni, ma non c’è progetto che tenga se non si parte da una relazione, che è una relazione tra due persone, prima che tra un assistente sociale, uno psicologo e un paziente. Quindi i momenti che più porto nel cuore sono, appunto, quelli di condivisione che mi vedono in prima persona a relazionare la mia emotività con quella di un altro.
Rosaria: "Mi piace l'idea di condividere idee e progetti"
Anche Rosaria Fraia è un’assistente sociale del Centro.
Per me il Centro di Salute Mentale è tante cose, perché è fatto da tante persone, e ogni persona porta con sé una professione, porta in sé il suo carattere, una propria dimensione professionale. Per me il CSM è importante perché, da un punto di vista
professionale, io non mi sento sola, ho la mia responsabilità come assistente sociale, però è solo una parte del lavoro che io ho modo di condividere con infermieri, con medici e psicologi. Per cui il fatto di poter condividere insieme un’idea, un progetto, trovo che sia una cosa davvero straordinaria, perché così in qualche modo io non sono sola. Pensando alle cose che io penso che possano andar bene per un paziente – per esempio un progetto – avere l’opportunità di poter condividere l’idea, non solo con la persona interessata, ma anche con i professionisti che mi circondano, mi aiuta spesso a rivedere quelle parti, oppure a riprendere in considerazione degli aspetti che altrimenti, da sola, io onestamente non vedrei.
Angela e Rosa, le cuoche del "Casone"
Angela e Rosa sono due cuoche e lavorano al “Casone”, una Comunità Terapeutica per persone affette da disturbi mentali. Quando è stato chiesto loro cosa rappresentasse quel posto per loro hanno risposto:
È un luogo dove la mattina ci rechiamo per lavorare, per dare una mano agli ospiti, per star loro vicino, per vedere tutte le loro esigenze, anche per la salute, per le visite, per qualsiasi cosa. Il più delle volte ce ne andiamo anche stanche, un pochino giù, però comunque nel cuor mio sono soddisfatta di come è andata la giornata e ci torno volentieri.
Aggiunge Rosa.
Per me è il primo pensiero quando ti svegli. Dove vado? Al Casone per lavoro, e già pensi: ‘Oddio, chissà quell’ospite come sta oggi? Chissà se è riuscito a fare questo? Se è riuscito a superare la crisi di ieri o magari un pensiero che lo preoccupava tanto’, e quindi vieni già carica per aiutare, sia nel quotidiano, sia nel tempo che vanno seguiti per quando devono uscire o per fare delle commissioni fuori da qui, per fare dei controlli medici, per tutto ciò che a loro serve. È un lavoro molto delicato, molto particolare. Con loro devi avere molta attenzione, molta pazienza, e devi dargli delle risposte ben precise, non vaghe, quindi devi stare molto attento a quello che dici. È un lavoro che io nel tempo ho imparato, sono quindici anni che lavoro qui, ovviamente inizialmente, per sommi capi, per sentito dire, sapevo cosa erano i ragazzi con problemi psichiatrici, però viverci con loro è un’altra realtà. È una cosa molto delicata, molti di loro ti entrano proprio nel cuore e sinceramente a volte me ne vado con il magone a casa e li penso anche lì, poi il giorno successivo torniamo e si continua quello che si è lasciato il giorno prima, finché aggiungeranno una posizione adeguata, discreta, per poi andare via in un futuro.
Selena: "Come cerco di abbattere i pregiudizi"
Selena, dopo aver studiato Scienze del Servizio Sociale a Roma, ha deciso di tornare in Molise per fare Servizio Civile al Centro Diurno di Termoli:
È un ambito di mio interesse, forte interesse, e quindi ho voluto intraprendere questo percorso sia per la mia formazione professionale, ma anche soprattutto per una crescita mia personale. Io penso che ci siano tanti pregiudizi e che, soprattutto, il pregiudizio nasca in particolare dalla non conoscenza, dall’ignoranza. Ignoranza intesa proprio come chi ignora qualcosa o qualcuno. Spesso sento dire che il malato, chi soffre di una patologia psichiatrica, non può vivere una vita in maniera dignitosa o non è in grado di svolgere determinate attività, oppure non è intelligente. Ecco, per me questi sono tutti pregiudizi che hanno a che fare davvero con la non conoscenza delle persone e nello specifico della malattia mentale, ed è qualcosa che è presente in maniera molto forte nel territorio.
Per cui secondo me è importante che i servizi siano continuamente rivolti verso la comunità, verso il territorio, che ci sia una continua sensibilizzazione, proprio per dar modo alle persone di poter conoscere, perchè solo con la conoscenza, secondo me, è possibile abbattere un po’ questi pregiudizi, questi stereotipi che sono nella mente di tante persone e con vui io, per prima, ho modo di confrontarmi. A volte mi si chiede: ‘Ma tu che cosa fai al centro diurno? Chi c’è lì? Come passate la giornata?’ In quei momenti sono disposta ad avere uno scambio con gli altri, e ci tengo ad averli proprio per abbattere questi pregiudizi.
Lo psicologo, il dottor Zurlo
Il dottor Zurlo è uno psicologo psicoterapeuta di orientamento dinamico del Centro di Salute Mentale, che a proposito dello stigma sociale dice:
Sì, è una tematica fondamentale, perché lavorare sullo stigma è, per usare una metafora, la lotta della luce con il buio. Nel senso che la malattia da una parte è ancora ancorata al vecchio pregiudizio, al fatto di voler nascondere le proprie parti negative, della famiglia o di sé, di far vedere solo la parte positiva e rilucente, e dall’altra invece combattere lo stigma vuol dire che la modernità è connessa alla mente razionale, cioè allo sviluppo razionale e consapevole di quelle che sono le difficoltà che si possono incontrare nella vita. Per cui è compito dei servizi intermedi, che entrano in contatto con la persona e con le famiglie, portare luce, e quindi far vedere come, alla fine, questi aspetti della salute mentale, che vengono vissuti con vergogna, non sono altro che aspetti abbastanza comuni, e che possono essere affrontati da un’altra prospettiva, molto più razionale e positiva. È un compito dei servizi fare questo lavoro, dipende da come ci si interfaccia con i pazienti e con le famiglie insomma. Prima di tutto sono i servizi a non dover avere stigma.
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