“Eh, lei qualche anno fa doveva essere un bel bocconcino, peccato si sia ridotta così, chiuda le gambe e si metta a correre, magari dimagrisce e non resta incinta”. Questo le è viene detto prima del suo aborto.

“Il suo secondo aborto è una vergogna per la nostra professione”, prima di rilasciarle il certificato per la sua IVG. “In fondo ha ragione, però”, risponde lei a me quando provo a consolarla.

“Un’altra volta ci pensavi prima”, le dice il farmacista prima di mandarla via senza la pillola del giorno dopo.

Queste sono solo alcune delle storie che ho raccolto in questi anni di “Ivg, ho abortito e sto benissimo”. Molte di queste storie sono rimaste chiuse nel cassetto della memoria per anni, ricordi indelebili, che non hanno trovato la forza e lo spazio per potersi raccontare. Noi lo abbiamo fatto, o almeno ci abbiamo provato, per provare a restituire in minima parte cosa significhi abortire nel nostro Paese.

Lo stesso Paese, per intenderci, in cui l’aborto è un diritto garantito da una legge dello Stato, ma che nei fatti è suscettibile di continui rimaneggiamenti che si estrinsecano come ostacoli per l’accesso e la garanzia di questa pratica.

Se definiamo la violenza come ogni atto o comportamento teso a recare danno a una o più persone, ben possiamo intendere questo tipo di frasi e negazione dei diritti come un atto di vera e propria violenza.

L’obiezione di coscienza, normata all’interno della legge 194/78, è una pratica molto conosciuta e “apprezzata” in Italia, visto che viene utilizzata in media da più del 67% dei ginecologi, che si appellano ad essa per non effettuare interruzioni volontarie di gravidanza e dunque, garantire il diritto di aborto nel nostro Paese.

L’obiezione di coscienza, in ogni caso, non permette in alcun modo, a nessuno, di giudicare, commentare o agire qualunque forma di assoggettamento sul nostro corpo e sulle nostre scelte.

Questo dovrebbe valere per il personale medico e sanitario, così come dovrebbe valere per ognuno di noi. Il fraintendimento, dietro al quale ci si trincera il più delle volte, è che ognuno possa essere “libero di esprimere le proprie opinioni”. L’avete sentita parecchie volte, vero? Il problema, all’apparenza banale, ma intrinsecamente assai complesso, è quando questa libertà lede la dignità della persona che ci si trova di fronte.

Nei processi che investono la salute riproduttiva, che vanno dalla contraccezione all’aborto, passando ovviamente dalla gravidanza e al parto, sembra quasi che il nostro corpo non ci appartenga più.

I confini diventano labili, il nostro corpo diventa un campo di battaglia di cui poter diventare padroni; le competenze, che dovrebbero essere condivise, risultano unicamente un processo medicalizzato in cui non veniamo minimamente coinvolte e interpellate.

Ed è lì che il nostro potere autodeterminativo, quello che dovrebbe favorire e incrementare il nostro senso di autoefficacia, viene inesorabilmente compromesso.

La violenza nella nostra cultura e nella nostra società, se da un lato viene stigmatizzata e condannata, dall’altra continua ad operare in tutti i processi e non viene neanche riconosciuta come tale.

Ne è un esempio lampante la “violenza ostetrica”, intesa come tutti gli abusi verbali e fisici operati nell’esperienza di maternità, prevalentemente durante il momento del parto. Nel 2014 è stata la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ad aver scritto un documento in cui fa emergere, attraverso studi specifici, una serie di comportamenti violenti e abusanti nei confronti delle donne.

Le parole violente, la negazione dei diritti, l’impossibilità di accedere a un servizio dignitoso, la mancata informazione circa le diverse tecniche contraccettive, il giudizio verso le libere soggettività e le persone transgender, la mancanza di adeguato personale sanitario e di mediazione linguistica e culturale, la negazione del diritto di aborto, l’impossibilità di praticare la salpingectomia perché c’è qualcuno che ha deciso in autonomia che non possiamo scegliere di non avere figli, la negazione della contraccezione d’emergenza, il mancato riconoscimento di malattie invalidanti e croniche come la vulvodinia, l’ascolto in alcuni casi obbligatorio del battito cardiaco durante l’ecografia per il certificato di IVG, l’obiezione di coscienza, cosa sono, se non violenza?

Sono cresciuta con l’idea, e insieme a me probabilmente molte di voi, che il medico o chi per lui, sappia cosa è il meglio per noi, che quello che dice o fa è per il nostro bene, che non ci è dato scegliere o capire, perché è così che vanno le cose, perché non mi è dato rispetto, non mi è dato di sapere.

Tutto questo, e tanto altro ancora, è violenza, e come tale andrebbe riconosciuta pubblicamente.

Il mio corpo è mio, mi appartiene, anche quando mi affido a qualcuno perché tuteli il mio diritto di salute. Il mio corpo è un limite personale che nessuno ha il diritto di violare o valicare. Il mio corpo reclama rispetto, verità e dignità.

La violenza non è il nostro destino, non ce la meritiamo anche quando crediamo invece che sia normale, perché scegliere di stare bene è un dovere che tutta la società dovrebbe tutelare e favorire.

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