Quando si parla dell’argomento disabilità associato al sesso si toccano sempre tasti che suscitano nell’opinione popolare imbarazzo e sconcerto; non è un caso se il tema della sessualità delle persone disabili sia tuttora un vero e proprio tabù, e se molte realtà, compresa quella italiana, fatichino ad accettare l’idea dell’assistente sessuale per i soggetti non autosufficienti dal punto di vista fisico o psichico, nonostante sia un fatto ormai appurato che la gran parte di loro ha pulsioni sessuali e necessità identiche a quelle di tutti noi.

Al netto di disabili che hanno una normale vita sessuale e che, è chiaro, possano tranquillamente pensare a una gravidanza, ci sono poi situazioni particolari. Resta però il fatto che, anche in contesti in cui non ci sono dubbi sulla possibilità e sul diritto di una disabile di avere figli, il tabù resta alto.

C’è un caso eclatante, quello di Nicole Lee, ragazza australiana disabile che a 22 anni ha volontariamente scelto di interrompere la gravidanza, la quale ha scritto un articolo su Quartz proprio per descrivere le reazioni dei medici di fronte alla sua decisione.

Avevo circa 22 anni quando sono andata in una clinica per un aborto – scrive nel pezzo – Avevo già un figlio, quindi questa è stata una decisione difficile. Mi aspettavo che mi venissero dati consigli, di essere trattata con empatia e preoccupazione. Ma stranamente, nessuno ha battuto ciglio. Nessuna consulenza. Niente domande. Inoltre, nessun supporto mi è stato offerto in seguito.
Come donna disabile, al mondo esterno la mia scelta di porre fine a una gravidanza è stata vista senza dubbio come la decisione ‘giusta’. Questa visione deriva potenzialmente dalle paure legate alla trasmissione di disturbi genetici. È una paura che ha le sue radici profondamente radicate nell’eugenetica, sulla percezione soggettiva che abbiamo rispetto al fatto che un disabile possa condurre o meno una ‘bella/buona vita. Oppure potrebbe derivare dalle inconsapevolmente negative visioni che circondano il nostro corpo e dalla nostra capacità per adattarsi o far fronte alla maternità. In altre parole: la gente sembra pensare che essere incinta sarebbe stato troppo difficile per me.

Un caso totalmente diverso è invece quello avvenuto a Londra, dove una ragazza disabile di 20 anni, incinta di 12 settimane, ha avuto un aborto “ordinato” dal giudice dell’Alta Corte britannica David Basil Williams , poiché, secondo i medici, la donna avrebbe l’età mentale di una bambina.

Nella sentenza, il giudice ha riconosciuto di mettere in atto una “significativa interferenza” nella vita della giovane donna, nonché una limitazione della sua autonomia, ma ha spiegato di aver agito solo valutando quale sarebbe stato il “migliore interesse” per lei, aggiungendo che la prosecuzione della gravidanza avrebbe potuto danneggiare il suo benessere mentale e fisico.

A riprova di ciò, Williams avrebbe citato fatti che mostrerebbero in maniera inconfutabile come la gestazione stesse già inficiando notevolmente la salute mentale della ragazza, rendendola più “aggressiva”. Nel frattempo, è stata aperta anche un’inchiesta per stabilire se la ragazza potesse essere stata vittima di stupro, e presumibilmente sarà eseguito anche un test del Dna per determinare la paternità, visto che in diversi sospettano che il padre possa essere un uomo a sua volta disabile mentale e sospettato del gesto.

Un caso simile era già stato sottoposto all’attenzione dell’Alta Corte nel giugno del 2019, e la decisione dei giudici era stata la medesima: solo che stavolta la madre e gli assistenti sociali della ventiduenne coinvolta, affetta da disabilità intellettiva, si erano opposti, assicurandosi che si sarebbero occupati loro del nascituro. Tanto che alla fine la Corte rovesciò il verdetto.

Certo la questione è sicuramente complicata, dato che casi come i due appena citati, non possono essere valutati a livello generale, proponendo soluzioni universali, ma dovrebbero venire considerati nella loro individualità e dietro un’approfondita conoscenza della situazione.

Il dibattito scaturito da questi casi è totalmente scisso dal dibattito sul tabù della maternità o paternità di donne e uomini con disabilità fisiche o invisibili, che in una società moderna dovrebbe essere ormai sdoganato, anche se purtroppo non lo è.

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