Cosa sta succedendo all’aborto in Italia?

Da quando è iniziata la pandemia gli ospedali hanno iniziato a muoversi seguendo un altro ritmo, organizzando priorità e provando a rendere sicuri i ricoveri necessari. Il covid-19 ha modificato l’angolatura dalla quale eravamo abituati ad osservare la realtà, creando un collo di bottiglia capace di ridurla all’osso.

Da quando è iniziata la pandemia gli ospedali hanno iniziato a muoversi seguendo un altro ritmo, organizzando priorità e provando a rendere sicuri i ricoveri necessari. Il covid-19 ha modificato l’angolatura dalla quale eravamo abituati ad osservare la realtà, creando un collo di bottiglia capace di ridurla all’osso.

Cos’è necessario?

Cosa si qualifica come necessario, e chi lo stabilisce? Necessario è ciò che non può essere altrimenti, senza cui non si può fare altrimenti. Gli interventi salvavita, possono considerarsi necessari, su questo probabilmente nessuno dissentirebbe. Anche qui, però, cosa consideriamo salvavita?

Letteralmente tutto ciò che può salvare dalla morte, ma ciò che preserva la qualità della vita, non è anch’esso salvavita? La qualità della vita è un fattore che pare essere di poco conto nelle nostre società, chi gode di una qualità eccelsa, rara e di benessere, non vede quante e quali storture rendano più complicata la vita di tutti gli altri. Ancor di più chi ha determinate posizioni, rischia di diventare insensibile alla qualità della vita, ma forse alla vita stessa, delle altre persone subordinandola a quello che considera adeguato per sé stesso. E così, necessità, salvavita e buona vita diventano l’interpretazione di altri sulla vita di molti. Molti a cui viene tolta, letteralmente, voce in capitolo.

La pandemia ci ha ricordato il potere, necessario, della medicina sulle nostre vite, ma ci espone più che mai all’esercizio di questo potere da parte delle persone che la esercitano. In linea di massima, il personale medico sanitario agisce per il bene del paziente, e questo va riconosciuto e non è scopo di questo articolo screditare questo fatto, anzi. Vi sono però delle occasioni, ben precise, con connotazioni politico-ideologiche ben precise in cui il bene del paziente viene subordinato alla coscienza del personale medico-sanitario, ed è questo il caso dell’aborto.

L’aborto in Italia dopo la pandemia

Nel nostro paese, stando alla Relazione del Ministro della Salute sull’attuazione della legge 194/1978, circa il 69% dei medici ginecologi è obiettore di coscienza, dunque non pratica aborti. Questo tasso raggiunge l’80% nella provincia di Bolzano e tocca il limite del 92,3% in Molise, dove attualmente opera un solo medico non obiettore.

Questi i dati in base 2018, ma le cifre paiono essersi gonfiate, arrivando a rendere l’aborto virtualmente inaccessibile. Il che avviene non solo per la difficoltà di trovare personale medico-sanitario non obiettore, ma anche perché, nel momento in cui si risiede in una zona dove non vi sono tali figure, le diseguaglianze iniziano ad interferire con le possibilità che consentirebbero di ricorrere a percorsi alternativi, banalmente, l’accesso a un mezzo privato e la possibilità di usarlo in autonomia.

Questa situazione rappresenta un caso studio esemplare sul divario esistenza tra l’esistenza de jure di una legge e la sua applicazione di fatto. L’obiezione di coscienza è prevista dalla legge stessa che tutela i medici che decidono di non operare per questioni di coscienza e, al contempo, impone il divieto all’obiezione di struttura, stabilendo quindi che la presenza di obiettori e obiettrici non diventi impedimento effettivo all’accesso all’aborto.

Giuliana Sgrena, ne Dio odia le donne, spiega ampiamente come e quanto la realtà differisca dalla legge. Oltre a specificare che il personale medico sanitario obiettore popola gli ospedali in numero consistente, rendendo impossibile l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, analizza quanto la loro morale religiosa o il bisogno di riflettere quella di un sistema ospedaliero impedisca loro di svolgere una funzione fondamentale della cura delle persone, anche quando previsto dalla loro specializzazione.

Il covid-19 si è innestato in questa situazione allargando la voragine tra persone che necessitano di accedere alla pratica abortiva e la difficoltà di accedervi. Posto che viviamo in un sistema in cui per costituzione vige la libertà religiosa e non esiste una religione di stato, ed essendo la pratica abortiva avversariata per motivi prettamente religiosi, la legge non dovrebbe essere mai subordinata alla morale religiosa in quanto la prima è, tecnicamente, uguale per tutti, la seconda è varia e composita.

Tant’è che nel 2020 lo stesso Ministero della Salute, per mantenere in forza la legge 194 ha inserito l’interruzione volontaria di gravidanza e il certificato per accedervi come prestazioni ginecologiche non differibili e non procrastinabili.
La legge, quindi il diritto, già nel 2020, era già stata tutelata da prescrizioni che indicavano il carattere di necessità della pratica abortiva. La pratica, purtroppo, non si è armonizzata di conseguenza.

Il progetto IVG sto benissimo, che da anni supporta, sostiene e informa chi necessita di accedere alla pratica abortiva, denuncia una tendenza crescente sul territorio a respingere le donne in stato di gravidanza che desiderano abortire quando positive al covid-19, nonostante le disposizioni di cui sopra prescrivano chiaramente la non derogabilità dell’intervento.

“Stiamo ricevendo molte segnalazioni di persone che vengono rimandate a casa perché sono risultate positive al covid-19 e si aspetta che si negativizzino per poter abortire”
“Quello che sta accadendo è molto grave ed è davvero preoccupante. Ancora una volta i nostri diritti vengono calpestati e soprattutto l’aborto non viene riconosciuto come una pratica della salute ma come strumento di assoggettamento.”
“Le normative, dopo essere state redatte, devono essere anche monitorate. Il Ministero della Salute, ancora una volta, latita e continua a non darci risposte, lasciandoci troppe volte di fronte all’arbitrarietà del singolo ospedale”.

L’associazione specifica due elementi non secondari, la strumentalizzazione della pandemia per non praticare l’aborto e la necessità di controllo sull’applicazione effettiva della normativa. Infatti, rinviando la pratica abortiva a una negativizzazione di fatto si rischia di eccedere il periodo stabilito per legge entro cui è possibile accedere all’aborto. Di nuovo, questa è una violazione del diritto stabilito dalla legge 194 e il silenzio assenso ministeriale, che legifera ma non esige il rispetto delle leggi, svela un vuoto istituzionale preesistente.

Realtà come Ivgstobenissimo, nonunadimeno e liberadiabortire sono spesso il ponte che colma il divario, l’unico appiglio nato e intessuto dal basso che sostiene tutte quelle persone che hanno bisogno di abortire. Ivg sto benissimo riporta almeno quaranta segnalazioni di aborto negato particolarmente concentrate in Puglia. Far valere i propri diritti è possibile, ma non è detto che presentare le disposizioni ministeriali sia sufficiente e, soprattutto, non dovrebbe essere compito del singolo dimostrare di avere diritto ad accedere ad un diritto, altrimenti cosa accade quando la persona non può dimostrarlo? Accade che il diritto viene violato e negato e la persona non viene tutelata.

L’aborto, nonostante la presenza della legge 194, spesso nemmeno viene riconosciuto come diritto. La narrazione politica e mediatica, ma anche quella di piccole lobby religiose come provita&famiglia capaci di insinuarsi persino negli ospedali, erode costantemente la percezione dell’aborto come diritto, come scelta e come priorità autodeterminata della persona.

L’uso di iperboli, di riferimenti religiosi o richiami allarmati alla vita destruttura il significato collettivo che diamo all’aborto. Separando l’idea dell’aborto e del libero accesso ad esso dal concetto di autodeterminazione e tutela della vita in essere, quella gestante per capirci, si contribuisce a limitare la libertà delle donne, delle persone con utero. La libertà personale e progettuale viene subordinata a un ordine morale esterno capace di stabilire quale percorso di vita sia perseguibile a priori. Cancellando completamente l’unica voce che dovrebbe avere un potere decisionale, ovvero quella della persona che desidera abortire e poterlo fare in sicurezza, come peraltro previsto dalle leggi dello stato in cui risiede.

La distruzione di valore e l’attribuzione di uno stigma sono mezzi di rielaborazione comunicativa capaci di porre l’aborto sotto una luce distorta e oscura. In queste narrazioni di interesse l’aborto diventa dolore e violenza. Il marchio negativo cambia le dinamiche di percezione sociale della pratica abortiva svuotandola delle sue connotazioni reali e della possibilità che sia riconosciuta come una scelta legittima e insindacabile di un individuo che esercita un suo pieno diritto. La possibilità di compiere questa scelta e di affrontarla senza che un giudizio esterno possa apporvi uno stigma dovrebbe essere un valore sociale condiviso, soprattutto in una società democratica e laica.

L’accesso alla pratica abortiva ha carattere di necessità, non solo perché una volta scelta non si può fare altrimenti, ma anche perché in assenza di tale accesso c’è il rischio che la persona provi ad utilizzare metodi non sicuri e pericolosi per la sua salute, se non addirittura per la sua vita.

Negare l’interruzione volontaria di gravidanza quando richiesta significa imporre un progetto di vita non desiderato, un percorso non voluto e questo può avere delle conseguenze psico-fisiche impattanti sia sulla vita della persona gestante, sia su quella del nascituro. Diventare genitori, o portare a termine una gravidanza, dovrebbe essere una scelta strettamente personale, non una coercizione religiosa possibile grazie al benestare di uno stato selettivamente muto.

La pandemia ha rimescolato l’ordine delle nostre priorità, ha modificato le gerarchie del necessario.
L’accesso ad un aborto legale, sicuro e sereno è un diritto che tutela la vita esistente, la sua progettualità, la sua autoderminazione, la sua salute fisica e mentale e il suo benessere.

Se siamo stati capaci di comprendere il valore di un panetto di lievito, possibile che ancora non siamo in grado di valutare la reale importanza dell’aborto?

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