Come parlare di suicidio (o dei propri pensieri suicidi)
Il suicidio continua a essere circondato da tabù e stigma, ma parlarne – e farlo con il giusto linguaggio – è fondamentale per prevenirlo.
Il suicidio continua a essere circondato da tabù e stigma, ma parlarne – e farlo con il giusto linguaggio – è fondamentale per prevenirlo.
Ci sono alcune parole che facciamo ancora fatica a pronunciare. Figuriamoci riuscire a parlare del fenomeno che descrivono. “Suicidio” è una di queste.
Perché non siamo preparati a discutere dell’argomento, perché ci spaventa, perché ci mette a disagio, perché non sappiamo confrontarci con il dolore di chi resta: i motivi per cui più o meno coscientemente scegliamo di non parlare di suicidio sono tanti e, sulla carta, tutti validi.
Non parlare dell’argomento, però, o – peggio – farlo male, è un errore, non solo perché continua ad alimentare l’inutile e ingiustificato stigma che lo avvolge, ma perché riuscire a parlare liberamente e nel modo giusto di suicidio è essenziale per la sua prevenzione.
Secondo un documento dell’OMS, lo stigma che rende ancora il suicidio un tabù è infatti uno dei principali ostacoli alla prevenzione:
Lo stigma, che circonda in particolare i disturbi mentali e il suicidio, significa che molte persone che pensano di togliersi la vita o che hanno tentato il suicidio non cercano aiuto e quindi non ottengono il supporto di cui hanno bisogno. La prevenzione del suicidio non è stata adeguatamente affrontata a causa della mancanza di consapevolezza del suicidio come un grave problema di salute pubblica e del tabù in molte società di discuterne apertamente. Ad oggi, solo pochi paesi hanno incluso la prevenzione del suicidio tra le loro priorità sanitarie e solo 38 paesi riferiscono di avere una strategia nazionale di prevenzione del suicidio. Aumentare la consapevolezza della comunità e abbattere il tabù è importante affinché i paesi facciano progressi nella prevenzione del suicidio.
Ogni anno, le persone che si tolgono la vita sono oltre 800mila nel mondo (circa 4.000 in Italia, secondo l’ISS) e molti di più tentano il suicidio. Non solo: nel 2019, il suicidio è stata la quarta causa di morte tra i 15-29 anni a livello globale. Quello dei suicidi, infatti, non è un fenomeno che caratterizza solo i paesi ad alto reddito, ma è diffuso in tutte le regioni del mondo e, anzi, oltre il 77% dei suicidi a livello mondiale si verifica nei paesi a basso e medio reddito.
La differenza tra le regioni del mondo è soprattutto relativa ai tassi analizzati in un’ottica di genere: in Europa – la regione del mondo in cui si registra il numero più alto – e nei paesi ad alto reddito, le donne sono più inclini ai pensieri suicidi, mentre gli uomini si tolgono più spesso la vita, al punto che è stata coniata l’espressione “epidemia silenziosa” per descrivere la gravità della situazione. In Italia, ad esempio, secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità il 78,8% dei morti per suicidio sono uomini.
È evidente sin dalle statistiche che quello del suicidio è un fenomeno dalle proporzioni imponenti e che deve essere affrontato con strategie che possano arginarlo. Nonostante una sempre maggiore attenzione alla salute mentale, però, non sembra che questa sia stata accompagnata da una nuova capacità di parlare di suicidio in modo aperto ed efficace.
Così, anche chi sperimenta il pensiero di togliersi la vita non sa come, né spesso con chi, parlare di quello che sta provando, con il rischio che i pensieri possano tradursi in azioni in assenza di un supporto adeguato. In parte, questo accade anche perché molte persone non sanno come reagire davanti a una persona cara che ha pensieri suicidi e quindi tendono a rispondere in maniera inadeguata, magari sbrigativa o minimizzando le emozioni negative derubricandole come un malessere destinato a passare.
Soprattutto, però, a impedire un efficace intervento preventivo è proprio il senso di vergogna che continua a circondare il suicidio, le persone che si sono tolte la vita e che vorrebbero farlo e i loro cari.
Rompere il silenzio è il primo passo: si pensa che il semplice parlare di suicidio porti inevitabilmente a una sua diffusione, ma non deve essere per forza così. Nonostante diversi studi abbiano evidenziato una effettiva correlazione tra la diffusione di notizie relative ai suicidi e un incremento nel numero di persone che si toglie la vita, la differenza è il modo in cui se ne parla.
È necessario superare la spettacolarizzazione e la ricerca del dettaglio scabroso e pruriginoso, rifuggendo la tentazione di dare risposte o interpretazioni semplificatorie, individuando una causa univoca e riducendo un fenomeno estremamente complesso a un semplice rapporto di causa-effetto.
Il linguaggio che si utilizza è fondamentale: sia di persona che sui social media – oltre che nel mondo dell’informazione – è necessario abbandonare il più possibile i termini stigmatizzanti, come “commettere il suicidio” – che richiama un lessico criminale – o “tentativo fallito di suicidio”, implicando indirettamente che un tentativo che ha successo sia quello di togliersi la vita. Si dovrebbe piuttosto parlare di persone “morte per suicidio”.
Soprattutto, però, è necessario aprire un dialogo franco e onesto, così che le persone che manifestano pensieri suicidi – un numero che risente anche dell’aumento dei casi di depressione dovuti alla pandemia, che secondo Harpers Bazaar colpiscono 1 adulto su 6 – possano cercare serenamente l’aiuto di cui hanno bisogno, senza timore di sentirsi giudicati.
È necessario creare un safe space e uno spazio di condivisione che abbandoni stigma e stereotipi – come quello del suicida “egoista” – e parlare liberamente e onestamente dei motivi che spingono le persone a ritenere che togliersi la vita sia l’unica soluzione possibile.
Questo non significa dimenticare che si tratta di un argomento estremamente sensibile e che potrebbe avere un impatto che non conosciamo sulle altre persone. Per questo, prima di parlare delle proprie esperienze e delle proprie sensazioni, è necessario essere chiari e franchi con l’interlocutore. Questo può essere fatto di persona, ma anche sui social network, in cui il trigger warning rappresenta un modo per poter parlare apertamente tutelando al contempo chi legge.
Un aspetto da non dimenticare, come ricorda la giornalista Jessica Davis (il cui padre è morto per suicidio quando lei aveva 18 anni) nell’articolo How to talk about suicide, è che
sebbene sia ovviamente importante evidenziare i modi per incoraggiare l’apertura, è anche fondamentale capire che non esiste una prevenzione assoluta per le azioni intraprese a seguito di una malattia. Coloro che hanno subito un lutto per suicidio proveranno comunemente sensazioni di colpa e di aver deluso qualcuno.
Personalmente ho perso il conto del numero di notti insonni che ho passato desiderando di aver fatto di più o interrogandomi impotente sui segni che avrei potuto vedere. Potrei non capire mai del tutto, ma ho trovato conforto quando ho accettato che non c’era nulla che avrei potuto fare da sola. […]
Tutto quello che posso fare ora è continuare a parlare, continuare ad avere quelle conversazioni difficili e ricordare alle persone che non sono sole. Negli ultimi due anni, abbiamo dovuto lavorare e sostenerci a vicenda come mai prima d’ora. Non fermiamoci ora.
Curiosa, polemica, femminista. Leggo sempre, scrivo tanto, parlo troppo. Amo la storia, il potere delle parole, i Gender Studies, gli aerei e la pizza.
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