In Brasile le donne stanno morendo nel tentativo di abortire

Dove l'aborto è illegale per legge, le donne si rivolgono al mercato clandestino, a rischio della loro vita. È il caso del Brasile, dove interrompere una gravidanza è illegale tranne in pochissimi casi, e dove le donne continuano a morire.

Se la storia ci ha insegnato qualcosa, è che rendere illegale l’aborto non serve a fermare le donne che vogliono interrompere una gravidanza. Lo rende solo più difficile e, soprattutto, pericoloso, come mostra l’aumento del numero degli aborti clandestini in Polonia dopo l’introduzione della legge no choice.

In Brasile, migliaia di donne sono morte dopo essere ricorse a misure disperate pur di sfuggire alla rigida legislazione che impedisce di abortire se non in rarissimi casi. Per molte di loro, la scelta è stata tra il proseguimento di una gravidanza indesiderata, la morte e la criminalizzazione: in troppi casi a prevalere è stata la seconda.

Secondo i dati DataSus, la banca dati del Sistema unico per la sanità brasiliana (Sus), riportati da Osservatorio Diritti, dal gennaio a giugno del 2020 gli aborti autorizzati per legge sono stati 1.024. Poco più di mille su una popolazione di oltre 200 milioni di abitanti. Non sorprende quindi che, dove non arriva la legge – ormai ancorata al 1940 – arrivi il business degli aborti illegali: meno sicuri per la vita delle gestanti, ma di più facile accesso.

Già nel dicembre 2014 Beatriz Galli, consulente politica dell’organizzazione internazionale per i diritti riproduttivi Ipas aveva dichiarato al The Guardian che «Non c’è nessun posto dove abortire in sicurezza ora a Rio, non importa quanti soldi puoi pagare». A distanza di anni, la situazione sembra solo essere peggiorata.

Le conseguenze degli aborti clandestini sono drammatiche, e le statistiche non riescono a raccontare l’enormità del fenomeno, registra Osservatorio Diritti

nonostante i sistemi informativi sanitari brasiliani non riportino dati sul numero di donne soccorse a causa di aborti non sicuri, nel primo semestre 2020 sono stati eseguiti circa 81 mila interventi a causa di aborti clandestini, spontanei o complicanze post-partum.

Secondo un documento rilasciato nel 2016 dall’Istituto di Bioetica e dall’Università di Brasilia e citato dallo stesso articolo, il 20% delle donne avrebbe avuto almeno un aborto illegale alla fine della propria “vita riproduttiva”. Cifre impossibili da stabilire con esattezza, ma che secondo il The Guardian corrispondono a quelle del National Abortion Survey 2010, secondo cui una donna brasiliana su cinque ha avuto almeno un aborto all’età di 40 anni.

Gli aborti, dice ancora il The Guardian, sarebbero oltre un milione all’anno, con oltre 200.000 ricoveri a causa delle complicazioni. E c’è di peggio: a morire a causa di questi aborti di fortuna sarebbe addirittura una donna ogni due giorni.

Secondo altre stime riportate dal The Atlantic, le donne ricoverate in ospedale per complicazioni da aborti sarebbero oltre 250mila l’anno, mentre le vittime degli aborti clandestini sarebbero oltre 200. Un numero che, secondo Debora Diniz, professoressa di diritto e salute pubblica all’Università di Brasilia, potrebbe essere sottostimato, dal momento che le famiglie spesso non ammettono che una donna sia morta a causa di un aborto. Sebbene il numero dei decessi sia in calo rispetto a 20 anni fa,

non sono sicura che abbiamo buoni dati. Quello che so è che le donne mettono a rischio la propria vita comprando medicine al mercato clandestino, non sapendo come usarle, e andando in ospedale per complicazioni.

La legislazione antiabortista del Brasile – già tra le più rigide al mondo – è stata ulteriormente inasprita nell’agosto del 2020, in seguito alle proteste legate al caso di una bambina di 10 anni rimasta incinta dopo aver subito abusi dallo zio, che aveva dovuto viaggiare quasi 1000 chilometri perché, nonostante avesse ricevuto l’autorizzazione ad abortire si era vista rifiutare l’intervento da parte dell’ospedale di São Mateus. In occasione nel suo aborto, gruppi religiosi e politici di estrema destra avevano manifestato fuori dall’ospedale di Recife per impedire che la piccola potesse interrompere la gravidanza.

Nel Brasile guidato dal conservatore Jair Bolsonaro – in cui i gruppi cattolici, in particolare i cristiani evangelici, hanno un peso sociale e politico determinante – è possibile abortire solo in tre casi: se la gravidanza è frutto di uno stupro, c’è un rischio di vita per la donna incinta o se è presente una grave malformazione del feto che ne impedisce la vita fuori dall’utero. In tutti i casi, non è possibile interrompere la gravidanza oltre le 22 settimane.

Per chi viola queste regole, il codice penale brasiliano, al Titolo Uno (crimini contro la persona), Capitolo Uno (crimini contro la vita), stabilisce

Articolo 124: “Aborto causato dalla gestante o con il suo consenso, pena di detenzione da uno a tre anni”.
Articolo 126: “Provocare l’aborto con il consenso della gestante, pena di reclusione da uno a quattro anni”.
Articolo 127: “Le pene contemplate nei due articoli anteriori sono aumentate di un terzo se, in conseguenza dell’aborto o dei mezzi utilizzati per provocarlo, la gestante soffre di lesioni fisiche di grave natura; e sono raddoppiate se, per qualunque di queste cause, ne sopravviene la morte.

Non solo: secondo le nuove disposizioni del governo Bolsonaro, i medici sono obbligati a segnalare alla polizia i casi di aborto e anche nei casi che rientrano nelle eccezioni previste per legge ottenere l’autorizzazione non è così facile. Le vittime di stupro devono raccontare nei dettagli cosa è successo, rischiando di incorrere un’azione legale se non riescono a dimostrare lo stupro. Inoltre, lo stupro sarà necessariamente denunciato alla polizia, con o senza la volontà della vittima.

Secondo il Consiglio nazionale di giustizia (Cnj), i processi penali per il reato di aborto causato dalla donna incinta o dai terzi con il suo consenso dal 2015 al 2018 sono stati 1.313. Tra questi, moltissime donne che di fronte alla scelta “prigione o morte” hanno deciso per la prima. Molte altre, però, di fronte alla paura del carcere hanno preferito non farsi curare e hanno pagato con la vita la sola colpa di aver ricercato un diritto che lo stato ha loro negato, come mostra la ricerca “Fra la morte ed il carcere”.

Uno studio che apre uno spaccato su un mondo fatto di vulnerabilità, che colpisce soprattutto le persone appartenente a ceti sociali meno abbienti: secondo la ricerca, infatti, le donne criminalizzate a Rio per avere abortito, nel 60% dei casi sono nere e povere. Una descrizione che corrisponde alle statistiche della Ricerca Nazionale sull’Aborto: basso livello di istruzione e di reddito, in maggioranza nere o indigene.

Storie di ingiustizia e prevaricazione, di gruppi di criminalità organizzata che approfittano dei diritti negati per sfruttare economicamente donne che non hanno altra possibilità se non ricorrere al fai-da-te o alla clandestinità e che non hanno scrupoli nei loro confronti, come ci ricorda la storia di Jayandra Magdalena, ritrovata in un’auto abbandonata con gli arti, le dita e l’arcata dentale rimossi prima che il suo corpo venisse dato alle fiamme. Secondo gli inquirenti, aveva subito complicazioni fatali durante l’aborto ed era stata sfigurata per impedirne l’identificazione e proteggere la banda criminale che gestiva il racket degli aborti.

«Lotteremo sempre per proteggere la vita degli innocenti», ha detto in un tweet Bolsonaro ricordando perché il suo governo non legalizzerà mai l’aborto. Ma chi lotta per la vita di queste donne innocenti?

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