Con l’emergenza sanitaria mondiale la nostra normalità è stata scardinata, e con essa molti dei concetti che ne facevano parte, fra cui quello di lavoro.

Se in molte realtà europee (ed extra continentali) lo smart working era una realtà consolidata già da qualche anno, gli italiani si sono trovati dall’oggi al domani a doversi organizzare con quello che, un tempo, in maniera in realtà molto semplicistica veniva bollato come “telelavoro”.

Ma questo ha condotto a problemi di altro tipo: se da un lato lavorare dalla comodità delle proprie mura domestiche permette infatti al lavoratore di non stressarsi per corse in ufficio, ingorghi nel traffico o sovraffollamenti sui mezzi pubblici, risparmiando anche in termini economici, dall’altro spesso lo stare a casa ha dato vita a un fenomeno particolare, quello del presentismo.

Cos’è il presentismo, il “lavoro malato”

Il presentismo è quel fenomeno, opposto all’assenteismo, di cui parleremo fra poco, che ci porta a essere sempre presenti e reperibili per il lavoro, approfittando anche del fatto che siamo a casa e, quindi, non abbiamo la scusante di poterci sentire male o di essere troppo stanchi o stressati.

In questo modo, va da sé, rischiamo solo di ritrovarci molto più affaticati e meno produttivi.

Presentismo e assenteismo

Si è parlato spesso dell’assenteismo dei dipendenti, ovvero della grande quantità di assenze dei lavoratori addotte per ragioni che non appaiono così giustificate; talvolta se ne parla anche in relazione ai parlamentari, come indice di una mancata partecipazione al dibattito pubblico e di lacune gravi nello svolgimento del proprio compito istituzionale.

L’assenteismo è certamente un fenomeno che incide pesantemente sugli interessi aziendali, eppure negli ultimi anni è risultato essere in calo: secondo un’indagine di Confindustria, infatti, riferita al 2018,

le ore lavorabili pro-capite, al netto delle ore di Cassa Integrazione Guadagni, sono state mediamente pari a 1.653 (+0,6% rispetto al 20172). Di queste, 101 non sono state lavorate a causa delle assenze dal lavoro (retribuite e non), -6,5% dalle 108 nel 2017. Il tasso di assenteismo (calcolato come il rapporto tra le ore di assenza e le ore lavorabili) è risultato in calo, attestandosi al 6,1% dal 6,5% dello scorso anno.

Contemporaneamente, e contestualmente alla situazione di pandemia, è quindi cresciuto il presentismo, che non è meno evidente dell’assenteismo, e, come quest’ultimo, non è immune da costi per l’organizzazione aziendale. Questo alla luce del fatto che i dipendenti, lavorando anche quando non sono oggettivamente nelle condizioni di farlo, presentano livelli più bassi di produttività, e incapacità di raggiungere gli stessi obiettivi che raggiungono in condizioni normali.

Presentismo e smart working

Impossibile e ipocrita negare che il fenomeno del presentismo non sia aumentato con lo smart working; l’idea, ampiamente diffusa, di poter lavorare comodamente “seduti a letto” ha infatti trasmesso implicitamente al lavoratore il pensiero di non avere alcuna scusante per mancare dal lavoro.

Tuttavia, il rischio di burnout esiste anche lavorando secondo questa modalità, e anzi proprio il fatto di lavorare da casa spesso è fra le prime cause di stress per i lavoratori, visto che in questo modo sentono su di sé la responsabilità di non potersi prendere riposo, perché nella loro testa è come se non lo “meritassero”, non dovendo sopportare spostamenti, lunghe giornate fuori casa e altre situazioni tipiche del lavoro “tradizionale”.

Molto spesso le persone sono portate a pensare che, anche se avvertono un malessere, possono comunque continuare a lavorare normalmente, dovendolo fare nell’ambiente domestico. Ma questo può essere un comportamento del tutto controproducente, per se stessi e anche per il datore di lavoro.

Perché il presentismo è un male

Uno studio condotto, fra gli altri, dal professore di management alla John Molson School of Business Gary Johns, ha indagato proprio le ragioni che spingono i lavoratori a continuare a lavorare anche in condizioni di malessere; lo stesso Johns ha affermato che “stimare il costo dell’assenteismo è un calcolo più tangibile rispetto al valutare l’impatto del presentismo. Tuttavia, l’assenza o la presenza di un lavoratore in malattia hanno entrambe costi e benefici per la collettività“.

Dal suo studio è infatti emerso che, molto spesso, i costi derivati dal presentismo erano molto più alti di quelli dipendenti dall’assenteismo.

Perché accade questo? Prima di tutto, perché un lavoratore non al meglio delle condizioni, fisiche o psicologiche, come detto non è produttivo come lo sarebbe in una situazione di normalità, pertanto l’ostinarsi a voler lavorare rappresenta un punto debole per l’azienda, che si ritrova con un dipendente non in grado di raggiungere gli stessi obiettivi e nelle stesse tempistiche del solito.

In secondo luogo, se non curate e gestire nella maniera adeguata, le condizioni da cui dipende il malessere possono perdurare e peggiorare, portando a convalescenze decisamente più lunghe. Se parliamo di un luogo di lavoro fisico, ovviamente, questo potrebbe tramutarsi in un rischio anche per gli altri colleghi a contatto con la persona malata.

Insomma, va bene la dedizione e la devozione al lavoro, ma non solo essere onnipresenti non paga, spesso è anche deleterio, per sé e per i nostri datori di lavoro.

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