Angelica ha ventitré anni, sta completando il percorso di studi come web design a Milano, in un’accademia che si chiama Mohole, e ha da poco aperto un blog personale.
Niente di diverso rispetto a quello che fanno molte sue coetanee, che aprono pagine Web dagli argomenti più disparati; solo che Angelica, in quelle pagine virtuali, in quel Diario Mozzafiato, parla della sua vita con la fibrosi cistica, malattia con cui convive dalla nascita.
Scrivere, ci spiega quando la raggiungiamo per conoscere la sua storia, è sempre stata la sua passione, così ha pensato di unire l’utile al dilettevole, e di mettersi davanti al computer per fare informazione e sensibilizzare su una patologia di cui soffrono circa 200 nuove persone l’anno, solo nel nostro paese.
Proprio lei, quindi, ci spiega di essere nata con la fibrosi cistica, e di essere una di quei bambini che vengono al mondo con la malattia, circa ogni 2.500-3.000 nascite.
“La mia realtà è sempre stata vissuta insieme a lei, quindi penso sia più facile rispetto a chi scopre di avere una malattia tardi”, ci dice, mentre ci racconta anche cosa significhi passare ogni singola giornata con questa problematica.
Significa tenere sempre gli occhi aperti, non distrarsi mai perché basta un attimo, una terapia fatta con superficialità per ritrovarsi ricoverata a causa di una riacutizzazione.
Nonostante le cure e l’attenzione rivolta alle terapie, Angelica non nega di provare, ogni tanto, un pizzico di paura al pensiero del futuro. Grazie ai numerosi progressi scientifici, come si legge sul sito di fibrosicistica.it, oggi il 20% dei pazienti supera abbondantemente l’aspettativa di vita dei 36 anni. Ma rimane comunque una percentuale di malati che se ne vanno precocemente.
Mentirei se dicessi di non aver paura, ma devo dire che penso di aver raggiunto finalmente una sorta di serenità mentale che mi permette di sfruttare questa paura e trasformarla per realizzarmi con coraggio. Tempo fa avevo paura di ‘andarmene senza lasciare nulla’, ora cerco di creare e condividere il più possibile ciò che penso e ciò che faccio per lasciare una sorta di testimonianza.
Al momento i miei progetti per il futuro sono molto semplici: vorrei trovare un lavoro che possa coniugare web e scrittura, avere una mia indipendenza, e magari in un futuro anche crearmi una famiglia se ne avrò la possibilità.
Nonostante i siti dedicati alla fibrosi cistica e a diverse campagne di sensibilizzazione, secondo Angelica si parla ancora troppo poco della malattia. “O meglio la si conosce, ma con superficialità. La risposta più frequente delle persone quando dico di avere la fibrosi cistica è: ‘Ah si, ho un amico che la ha anche lui’. E il 90% delle volte non hanno la minima idea di cosa comporti realmente. Penso che ci sia bisogno di maggiore informazione, perché essendo una malattia ‘invisibile’ spesso viene presa sotto gamba, e genera discriminazione“.
Angelica, avendola avuta dalla nascita, non riesce a immaginare la sua vita senza fibrosi cistica.
Non riesco ad immaginare la mia vita senza, la mia routine è sempre stata più o meno la stessa. So dai dati che noi malati spendiamo circa il 30% della giornata per le terapie. Per come posso interpretarla io la mia vita con la fibrosi cistica cambia per quanto riguarda il relazionarsi con gli altri, che spesso non capiscono o che non hanno voglia di capire.
Cambia perché non ti permette di essere leggera al 100% dal punto di vista mentale, è sempre lì che lampeggia dentro di te. Cambia quando fai fatica a camminare e quando devi fermare una risata a causa della tosse. Questo però non mi ha mai fermata dar ricercare e ottenere la felicità.
Proprio perché c’è ancora tanta disinformazione e scarsa conoscenza, avresti un messaggio da mandare alle persone che sanno poco o nulla della fibrosi cistica?
Il mio messaggio a chi non conosce la malattia è semplice: informatevi, soprattutto se dovete relazionarvi con un malato o una malata, è il modo migliore per dare importanza a quella persona, siate pazienti e gentili senza provare mai pena.
A chi invece combatte come me con la fibrosi cistica vorrei dire di non abbattersi e avere sempre cura del proprio corpo, di non vergognarsi, fatevi scoprire senza timori, e di sfruttare tutto questo gomitolo di emozioni forti per creare qualcosa di bello e importante per voi stessi.
In gallery abbiamo raccolto alcuni degli estratti del blog di Angelica.
Cos'è la fibrosi cistica per me
Non è semplice come domanda, siamo cresciute assieme nel vero senso della parola: da piccole eravamo conoscenti, lei era una presenza quasi invisibile e si presentava solo se non prendevo, o sbagliavo le dosi degli enzimi.
Da piccola la Fibrosi Cistica aveva la forma delle pillole, degli antibiotici e dei mal di pancia, nulla di più. Spiegavo a chi me lo chiedeva che gli enzimi servivano per non farmi venire il cagotto, e in effetti era così, ignoravo tutto il resto perché Lei non me lo aveva fortunatamente ancora fatto conoscere.
Il primo incontro che ho avuto è stato durante la prima media: era l’ora di educazione fisica e stavo correndo insieme ai miei compagni intorno al cortile interno della scuola. Primo giro, un colpo di tosse. Secondo giro, due colpi di tosse. Terzo giro, mi scoppiano i polmoni, mi fermo.
Mi ricordo perfettamente quel momento: non ero preoccupata o spaventata, non capivo perché fossi già esausta nonostante fossi solo al terzo giro, perché gli altri andavano avanti tranquillamente e io no? Ero disorientata, frustrata, furiosa. Avevo insistito e mi ero rimessa a correre, avevo spremuto i miei polmoni, i quali chiedevano pietà senza essere minimamente ascoltati. Ero arrabbiata con me stessa, mi sentivo una sfigata. […]
In ogni caso poi l’ho capito il perché facessi più fatica degli altri, che la Fibrosi Cistica non era solo mal di pancia ma molto di più, così tanto che ancora oggi non ne conosco tutte le sue sfaccettature (per fortuna).
Da questo primo step è cominciato il classico rifiuto, l’ho chiusa in un cassetto sperando che non uscisse mai più. È sempre stato un rifiuto tranquillo devo dire […] mi curavo, andavo alle visite e vivevo il tutto tranquillamente, perché era sempre stata quella la mia vita, ero abituata. Semplicemente al primo sentore di fatica sopprimevo tutte le emozioni, ignoravo il fiatone, la stanchezza, la tosse. Ho nascosto sotto il tappeto per anni.
[…] Ci sono stati molti ricoveri, molti momenti no e molti momenti sì, e devo dire che il mio rifiuto si è trasformato in: ok ho questa cosa, ma sto bene, quindi vabbè ci penserò. Lei non ha tardato a rendermi partecipe della sua presenza, infatti l’anno dopo la mia maturità è stato anche l’anno peggiore della mia vita.
Per la prima volta ho avuto un bello schiaffo in pieno volto, mi sono approcciata con termini che non sapevo (o non volevo) potessero entrare nella mia quotidianità: “degenerazione”, “trapianto”, “morte”.
Mi sono sentita per la prima volta completamente sola, pur avendo sempre i miei genitori accanto, ero sola nel mio corpo che si era spezzato, anzi che lo era sempre stato, ma mi ero sempre rifiutata di vederlo, di vedermi.
Ho urlato, ho avuto paura e la mia prima reazione è stata: io non lo faccio, qualsiasi cosa debba fare, non la faccio.
Guardavo la Fibrosi cistica e vedevo me stessa, aveva la mia forma: si era impossessata delle mie mani, della mia bocca, dei miei occhi, delle mie gambe. Si era presa tutto e mi sentivo affogare.
[…] Al momento la Fibrosi Cistica non ha più un volto, fa parte di me e continuerò a combatterla, non la accetterò mai e non deve essere accettata, bisogna combattere per far sì che la ricerca vada avanti e trovi una cura. Devo combattere la Fibrosi Cistica e proteggere il mio corpo.
Non sono grata a Dio per essere stata bene per tanti anni o per non essere ancora in lista di trapianto, sono grata a me, alle persone che mi vogliono bene, ai dottori e al culo, perché fa sempre bene averne un po’ nella vita.
Il mio pensiero sull'amore
[…] Il grande problema, secondo me, è la spasmodica ricerca di perfezione. Si sente parlare della “bellezza delle imperfezioni”, ma le persone in genere per queste intendono: cicatrici, smagliature, un naso troppo grande, perfino le lentiggini sono considerate imperfezioni. È difficile e frustrante parlare di imperfezioni interne, di qualcosa che è già ammaccato in partenza ed è più grande di qualsiasi naso e più profondo di qualsiasi cicatrice. Spaventa, ritrae, inganna e con l’amore non ha nulla in comune.
[…] Un po’ di tempo fa mi sono detta: “Angelica lascia stare, come puoi pretendere di buttare addosso una verità così immensa ed aspettarti che l’altro la accetti”. […] Al momento non ho più pensieri così patetici, ogni tanto paura la ho, lo ammetto. Di solito cerco di rimanere sulla difensiva, è più sicuro rimanere nel mio bunker invisibile, forse perché è proprio questo il mio punto debole: essere toccata in quella sfera nascosta e in piena vista allo stesso tempo, perché nel caso venisse maneggiata con noncuranza io soffrirei, soffrirei e non posso farci nulla.
La mia bolla è confortante, mi culla e mi accarezza il viso nei momenti di profonda solitudine. Mi amo e mi basto, ma mentirei se dicessi che non vorrei ogni tanto fare finta di non avere nulla da dire.
Vorrei che il mio massimo disagio fosse mostrarmi struccata, non con lividi sulle braccia a causa degli aghi.
Vorrei avere il rossetto sui denti mentre sorrido e non una mascherina che lo nasconda, vorrei così tante cose che non finirei più.
[…] Viviamo in un mondo veloce, che ti calpesta i piedi e ti fa inciampare, viviamo di tosse assordante e di parole mute, ma in tutta questa confusione gli esseri umani esistono ancora, ed io ringrazio la casualità, lo gnocco fritto e un giro in moto per avermi permesso di incontrare mia mamma e mio papà.
I ricoveri
A oggi sono all’ottavo giorno di terapia endovena, fortunatamente essendo una cura preventiva mi hanno dato la possibilità di farla a casa. Fibrosi Cistica significa anche questo, ricoveri. Il motivo più comune sono le riacutizzazioni, siamo elastici e ci tendiamo in una danza pericolosa, che fermiamo prima di spezzarci irrimediabilmente. Mi ritengo molto fortunata perché il mio primo ricovero è stato a undici anni, o meglio il mio primo vero ricovero, il primo in assoluto l’ho fatto a pochi mesi di vita: con gli aghi nella testa e Sanremo alla tv.
Non fu particolarmente difficile come ricovero, avevo un batterio abbastanza debilitante e fui imbottita di cortisone. Uscii e fu tutto tranquillo finché l’estate stessa non fui ricoverata per una polmonite. Mi ricordo una serie di “troppo”: la febbre troppo alta per troppi giorni, la glicemia che raggiungeva valori da coma iperglicemico, troppi giorni di ricovero, troppi buchi nelle braccia e nelle mani.
Ero ancora nel reparto di degenza pediatrica, i miei genitori si davano il cambio settimanale per stare ventiquattr’ore su ventiquattro con me, dormivano su una poltrona marrone comoda come uno scoglio. Le pareti delle camere erano verdi come anche il tavolino e la sedia, sulle finestre c’erano degli stickers di Pluto, l’armadio era blu e le lenzuola bianche usa e getta.
Quando compi diciotto anni puoi rimanere ancora per qualche anno in pediatria, ma i ricoveri devi farli forzatamente nel reparto adulti. Pneumologia, femminile nel mio caso. C’è meno verde e più blu, non ci sono stickers alle finestre, il tavolino è in legno e le lenzuola sempre usa e getta.
Il viaggio in macchina verso l’ospedale di solito è quasi piacevole, forse perché non mi rendo mai perfettamente conto, mi illudo sempre che “vabbè qualche settimana di noia che sarà mai”. Guardo le campagne sfrecciare veloci e ascolto musica nelle cuffiette.
Comincio a rendermi conto quando mi siedo nella saletta d’attesa aspettando che sia tutto pronto per la camera. Un check-in subdolo per una vacanza non richiesta.
Il seguito è tutto molto veloce: entri in camera, ti bombardano di domande per compilare la tua cartella clinica, ti attaccano un braccialetto identificativo con un numero e un codice a barre, ti spiegano che terapia farai, quali esami ti hanno programmato, ti infilano un catetere nella vena e tutto comincia. […] Nel mondo degli adulti i genitori non possono rimanere, quindi arriva un orario in cui devi salutare, devo salutare.
Ci diciamo “ciao a domani” sei o sette volte: prima in camera, poi dalla finestrella della porta, via messaggio e in ultimo a voce al telefono. A Brescia, dove sono in cura, sono circondata da persone meravigliose, dai dottori agli inservienti. Sono come una coperta calda dopo una scarpinata nella neve.
Nonostante questo, però, più passano i giorni e più mi sento meno Angelica e più 011602G081 (era il numero del mio ultimo braccialetto identificativo). Quello che più di ogni altra cosa mi fa stringere il cuore è l’odore della mia pelle: più i giorni passano e più scompare, si neutralizza con l’odore delle lenzuola e finisce con l’odorare di disinfettante. Mi ci avvinghio finché posso, se chiudo gli occhi mi sembra ancora di essere a casa mia.
Quando mi sento discriminata
[…] Avere a che fare con una persona in una situazione difficile non è di certo una passeggiata, che sia un problema di salute, un lutto o qualsiasi altra cosa. […] Con questo non voglio dire di mandare giù tutto e fare finta di niente, ma di andare con calma e cercare il più possibile di guidare l’altro a capire.
È molto più facile a dirsi naturalmente, perché molti non ne hanno voglia, non conoscono e cercare di capire è troppo impegnativo.
Una malattia fa paura, nei miei coetanei vedo la maggior parte delle volte il rifiuto. Quando comincio a dare qualche nozione in più, spesso vengo bloccata: “No no, non voglio sapere ho il terrore delle malattie”, ed io capisco per carità, non è sicuramente un argomento piacevole, ma se mi vuoi conoscere non posso nascondere questa parte di me, non posso fare finta di nulla, perché prima o poi si mostrerà in un modo o nell’altro. Presto o tardi non riuscirò a parlarti perché avrò troppa tosse, ti chiederò di camminare più lentamente, annullerò una nostra uscita il giorno stesso.
Dire: “Non dirmi nulla, non mi piace parlare di malattie” è come dire: “Non voglio conoscerti e mi fai paura”, non è sincerità è discriminazione. Ed è profondamente triste, perché fa ritrarre, nascondere. È come una fiamma che ti brucia e ti costringe a ritirare la mano.
Il fatto è che bisogna avere rispetto e cura, altrimenti è inutile definirsi amici. È inutile dire: “Ci sono” se poi quando sono ricoverata ci sono solo silenzi, che sono come terriccio umido e colla che ti entrano nella bocca e nelle narici, promesse che al contrario del terriccio sono sterili e prive di significato.
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