A quasi tutti, almeno una volta nella vita, sarà capitato di pensare di essere stressati a causa dei numerosi impegni di lavoro, dei ritmi frenetici da seguire e dei tanti obblighi da portare a termine.
Ma quando lo stato mentale di sopraffazione diventa patologico, allora si parla di burnout, ovvero di stress da lavoro. Che, da quest’anno, è stato ufficialmente inserito dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), nell’elenco dei disturbi medici, costantemente aggiornato.
Non parliamo di una malattia vera e propria, quanto, come si legge su Repubblica, di un “problema associato alla professione”, i cui sintomi sono spossatezza sul luogo di lavoro, cinismo, isolamento e, in generale, sentimenti negativi, uniti a un’efficacia professionale ridotta”, e che dà come risultato una “sindrome che porta a stress cronico impossibile da curare con successo”.
Dopo decenni di studi – il primo ad occuparsi del burnout fu lo psicologo Herbert Freudenberger nel 1974 – l’Oms ha dunque deciso di considerarlo come un disturbo invalidante, fornendo al contempo ai medici le direttive per diagnosticarlo.
Sempre secondo la classificazione, il burnout si riferisce esclusivamente ai fenomeni nel contesto occupazionale, mentre non trova applicazione in altri ambiti della vita.
Il nuovo elenco, Icd-11 entrerà in vigore nel gennaio 2022 e conterrà molte altre aggiunte, inclusa la classificazione del “comportamento sessuale compulsivo” come disturbo mentale, o l’inserimento dei videogiochi fra i “disturbi da dipendenza”, insieme al gioco d’azzardo e alle droghe come la cocaina.
Un altro grande passo in avanti è stato fatto con la condizione dei transgender, spostata dalla lista dei disturbi mentali a quelle delle “condizioni relative alla salute sessuale“.
Cos’è la sindrome da burnout
Con questo termine ci riferiamo a un processo stressogeno di carattere patologico che interessa, in varia misura, diversi operatori e professionisti impegnati ripetutamente in attività che presuppongono relazioni interpersonali.
Il burnout, come si legge su Wikipedia, comporta “esaurimento emotivo, depersonalizzazione, un atteggiamento spesso improntato al cinismo e un sentimento di ridotta realizzazione personale. Il soggetto tende a sfuggire l’ambiente lavorativo assentandosi sempre più spesso e lavorando con entusiasmo ed interesse sempre minori, a provare frustrazione e insoddisfazione, nonché una ridotta empatia nei confronti delle persone delle quali dovrebbe occuparsi”.
Molto spesso il burnout è accompagnato da un deterioramento del benessere fisico, o da sintomi psicosomatici come l’insonnia, o psicologici, come la depressione.
Da qui il disagio può estendersi fino all’abuso di alcol, di sostanze psicoattive e persino al rischio di suicidio.
Per misurare il burnout ci sono diverse scale, ma la più importante è senz’altro la scala di Maslach, che si compone di un questionario da 22 domande con cui si cerca di stabilire se nell’individuo sono attive dinamiche psicofisiche che rientrano nel burnout. Il soggetto deve rispondere a ogni domanda inserendo un valore da 0 a 6 per indicare intensità e frequenza con cui si verificano le sensazioni descritte nella domanda stessa.
Ci sono professioni più a rischio burnout, in particolare esso sembra piuttosto elevato tra gli operatori sanitari – medici e infermieri – insegnanti e poliziotti.
Proprio negli operatori sanitari, la sindrome si manifesterebbe attraverso quattro fasi:
- Fase dell'”entusiasmo idealistico” che spinge il soggetto a scegliere un lavoro di tipo assistenziale.
- Fase della “stagnazione” in cui il soggetto, sottoposto a carichi di lavoro e di stress eccessivi, inizia a rendersi conto di come le sue aspettative siano diverse rispetto alla realtà lavorativa.
- Fase della “frustrazione”, in cui si cominciano ad avvertire sentimenti di inutilità, di inadeguatezza, di insoddisfazione, insieme alla percezione di essere sfruttato e poco apprezzato; in questa fase il soggetto cerca occasioni di fuga dall’ambiente lavorativo, e può avere tteggiamenti aggressivi verso gli altri o verso se stesso.
- Fase dell “apatia”, in cui l’interesse e la passione per il proprio lavoro si spengono completamente e all’empatia subentra l’indifferenza, fino alla “morte professionale”.
Ora che è stato inserito nell’elenco dei disturbi dall’Oms, è importante sensibilizzare e fare informazione sull’argomento. Per questo, abbiamo raccolto in gallery 6 storie di vittime di burnout.
Marianne: "Ho ignorato così a lungo il mio corpo che alla fine lui ha deciso per me"
Marianne, una signora francese di 43 anni che vive in Olanda da più di 11 anni ha raccontato la sua esperienza sul blog della psicoterapeuta Eva Authentic Living.
“Ho iniziato la mia carriera come sviluppatore di software e ora sono responsabile di tutti i software in una piccola azienda medica. Sono la madre di due ragazze e la matrigna della figlia del mio marito olandese.
[…] Il 2012 è stato il mio “annus horribilis”. A gennaio, il mio perverso padre narcisistico ha fatto un altro passo nella sua crudeltà e ci ha annunciato via email che stava lasciando nostra madre. Ci ha detto che sarebbe andato a vivere con la sua amante e sperava che avremmo potuto festeggiare con lui questo meraviglioso sviluppo della sua vita. […]
A settembre dello stesso anno, il mio rapporto con il mio compagno e padre delle mie due figlie è finito dopo 13 anni in maniera amara. Anni di rabbia reciproca con lui, insieme al problema con mio padre, hanno causato picchi di stress molto regolari. Pochi mesi dopo, ha deciso di tornare nel nostro paese e sono diventata mamma single in un paese straniero con le mie figlie di 3 e 7 anni.
Da quel momento sono entrata nella ‘modalità mercenaria’: fare abbastanza soldi per essere in grado di mantenere la nostra casa e le attività doposcuola delle bambine. Volevo mantenere la loro vita identica a com’era prima della separazione. Ho lavorato a tempo pieno e insegnato pianoforte nelle serate e nei fine settimana per riuscirci.
[…] Ero una madre, una casalinga, una lavoratrice, tutto questo mentre avevo a che fare con la mia stessa rabbia contro mio padre e la mia stessa sofferenza emotiva per la separazione. Oltre a ciò, ho cercato di ottenere buoni risultati nel nuovo lavoro appena iniziato in una start-up per portare la mia carriera al livello successivo.
[…] Ho continuato così per 3 anni, ho coscientemente ignorato tutti i segnali premonitori di angoscia che il mio corpo mi stava dando fino a quel venerdì al lavoro. Abbiamo avuto una situazione stressante. Sono tornato a casa stressata e quella sera non mi sono addormentata. Né sono riuscita a dormire per i successivi quattro mesi. Ho smesso di dormire COMPLETAMENTE.
Avevo ignorato i segnali del mio corpo per così tanto tempo che lui ha preso l’iniziativa e ha iniziato uno sciopero a lungo termine. A quel punto non me ne sono resa conto, ma guardando indietro, è stato quando ho avuto il burnout.
Il sonno era sempre stato la mia arma segreta per sostenere una vita così attiva, e senza mi sentivo come una tartaruga senza il suo guscio. Immensamente vulnerabile, gettati in una modalità di esaurimento totale, dopo alcuni giorni di completa privazione del sonno, iniziarono gli attacchi di panico. Sentivo che non sarei mai uscita da quel buco e che avevo creato una spirale verso il basso.
La mia prima reazione fu quella di chiamare mia madre quella domenica per condividere con lei quello che stava succedendo. È arrivata il martedì successivo per aiutarmi con i bambini. Ha finito per rimanere per quattro mesi…
[…] Mio padre ha una storia di abusi di antidepressivi e mi sono rifiutata di prendere in considerazione di curarmi così. Assumere farmaci era essere come lui, una persona debole, e io non potevo essere quella persona. Allo stesso tempo, essendo l’unica che portava i soldi a casa, non ho avuto altra scelta che continuare a lavorare, perché avevo un contratto a tempo. Mi sono resa conto di aver messo spesso la mia vita in pericolo quando facevo il lungo tragitto per andare al lavoro in auto senza aver dormito un’ora intera la sera prima.
Sono passati altri 3 mesi e la mia spirale verso il basso continuava a farsi più grande. […] A malincuore ho iniziato a prendere un trattamento anti-depressivo che mi avrebbe aiutata a ripristinare il sonno. Però soffrivo ancora di attacchi d’ansia. Ho iniziato a lavorare con Eva per imparare come ripristinare la comunicazione tra la mia mente e il mio corpo e fermare la guerra che i due stavano facendo l’uno con l’altro. […] Nel complesso mi ci sono voluti 3 anni e mezzo. Da pochi mesi sento di essere tornato al mio “vecchio” io.
Lacy: "Il mio corpo è andato in esaurimento"
Sempre dal blog della psicoterapeuta Eva Authentic Living:
“L’ho sentito arrivare per mesi, anni. Ho trascorso la mia vita guidata dalle aspettative di ciò che credevo gli altri pensassero di me e del mio ego. Un profondo senso del dovere, della responsabilità e del desiderio di compiacere gli altri. Ero una studentessa modello, una lavoratrice modello, un redattore capo, solista di balletto, sempre al primo posto, la prima a inviare un biglietto di auguri, a dare una mano, a fare volontariato e così via.
Mi sono trasferita ad Amsterdam nel 2017 […] Lavoravo giorno dopo giorno, adattandomi a una grande transizione di vita senza tempo per il riposo, la riflessione o un po’ di tranquillità. Lavoravo da 14 a 16 ore al giorno per gestire il fuso orario. Bevevo 4 tazze di caffè prima delle 10:00!
Sono una madre che lavora, naturalmente, sono occupata. Siamo tutti occupati. Pilates, cosa? Ho smesso di allenarmi mesi fa. Sentivo di non potermi permettere delle emozioni, di non poter saltare gli incontri di lavoro, non mi fermavo per le pause pranzo e nemmeno per andare in bagno. Ho lavorato venerdì e sabato. ‘Devo solo inviare un’altra email. Verrò a letto quando questo incontro sarà finito a mezzanotte’.
[…] In un momento, tutto è diventato nero il 30 aprile 2018. Sono letteralmente crollata sul pavimento e svenuta. Ricordo di aver cominciato a singhiozzare, iperventilando, dicendo ‘Non posso farlo più’. Se mio marito non fosse stato lì, avrei potuto restare nell’oscurità per tutto il giorno o peggio.
Il mio corpo e la mia mente si sono sbriciolati per lo stress a cui ero sottoposta e sapevo che non potevo continuare a vivere a quel ritmo. Il mio medico mi ha informato che quel pomeriggio il mio corpo era andato in esaurimento e se non avessi fatto un cambiamento drammatico, la mia salute ne avrebbe sofferto molto.
[…] Mi sono allontanata dal lavoro interamente per 5 mesi e mezzo. All’inizio ho dormito molto. Il mio corpo e la mia mente erano alla disperata ricerca di riposo. Una piccola uscita o attività al giorno era tutto ciò che potevo gestire per alcune settimane. Dormivo, ho lavorato con Eva, facevo yoga e agopuntura, ho meditato, sono andata al parco e mi sono seduta.
Ho dovuto premere drammaticamente il tasto pausa e ricablare il mio intero essere in un modo che confondeva il mio cervello e l’ego, ma sapevo che nel mio cuore era assolutamente necessario recuperare. Ho iniziato a mangiare regolarmente, a seguire un programma di sonno, a bere acqua e meno caffeina e a fare esercizio.
[…] Nell’ultimo anno ho scoperto che non solo la mia mentalità è cambiata, ma anche le cose pratiche che faccio ogni giorno per prendermi cura di me stessa.”
Katharine: "Pensavo di essere una Wonder Woman, non lo ero"
Sempre dal blog della psicoterapeuta Eva Authentic Living:
“Ho iniziato la mia carriera oltre 13 anni fa lavorando per grandi aziende internazionali prima di passare a una società di consulenza internazionale come consulente di gestione. Fino ad oggi ho avuto una carriera di grande successo, ma ho sperimentato il burnout 6 mesi fa.
Non ho avuto un momento drammatico in cui sono letteralmente crollata ma sono convinta che, se avessi aspettato altro tempo, sarebbe successo.
Sono stata sotto stress per anni. 12 anni in effetti. Ho lavorato troppo duramente dal momento in cui ho cominciato il mio primo lavoro aziendale a 20 anni. Lo sprint è continuato fino a quando lo stress ha risucchiato tutta la mia energia e mi ha portato alla fase di burnout.
Il mio burnout è stato un accumulo di stress in questi anni. I miei amici mi hanno detto a lungo che il mio rapporto con il lavoro non era sostenibile e avrebbe avuto conseguenze se non avessi iniziato a prendere sul serio la mia salute. Così, mentre i miei amici non erano sorpresi quando ho avuto il burnout, lo ero sinceramente.
Pensavo di essere Wonder Woman e potevo fare tutto. Nella mia mente avevo una grande energia, ero in forma, correvo mezza maratona, viaggiavo per il mondo, mantenevo una vita sociale attiva e facevo grandi lavori. I segni erano lì lungo la strada, ma ho scelto di ignorarli.
Inoltre non sapevo cosa cercare perché il burnout non è qualcosa di veramente ben compreso. Il burnout non è un argomento di conversazione in Australia, di cui sono originaria. Nei Paesi Bassi, sebbene non pienamente compresi, hanno un sistema di supporto più attivo, ma sfortunatamente questo supporto arriva solitamente dopo il burnout. Quindi accettai volentieri l’ignoranza come una scusa per non ritenere il burnout qualcosa di concreto. Come potrebbe qualcuno non avere energia, nessuna spinta, nessuna passione? Come potrebbe qualcuno non voler alzarsi?
Imparo meglio attraverso l’esperienza. E, come d’abitudine, ho imparato che il burnout è qualcosa di molto concreto quando mi ha colpita in faccia come una tonnellata di mattoni.
[…] Nei giorni / settimane che hanno preceduto l’esaurimento, ero un’ombra di me stessa che non riconoscevo. Nemmeno le persone più vicine a me. Facevo poca o nessuna attività fisica, consumavo circa 10 tazze di caffè al giorno, lavoravo dalle prime ore del giorno in transito sul bus fino a mezzanotte (spesso fino all’inizio del giorno successivo). Gli effetti dello stress cronico erano fisicamente e mentalmente in atto.
Il mio stomaco era a nodi, ero costantemente malata, il mio corpo era teso dappertutto, la mia mente nebbiosa, il continuo ronzio nelle orecchie, mal di testa tutto il giorno e inseguivo costantemente il caffè successivo per stare su. Non potevo alzarmi dal letto nei fine settimana. Ero stanca e infelice. […]
Riflettendo sulla mia esperienza di burnout ho aperto gli occhi e cambiato la mia vita. […] Sto ancora lavorando per recuperare, ho preso una serie di impegni con me stessa sulla base di ciò che ho imparato e che funziona meglio per me.”
"Mi sentivo sempre più vuoto"
Questa la testimonianza di un infermiere raccontata al sito Nurse24:
“Mi sono laureato nel 2006 presso l’università più vicina a casa. Ero comunque a quasi cento chilometri e con il servizio pubblico che c’era dovevo dormire nel salotto di una zia di mia madre, che si era sposata un cittadino. Per tre anni poi il venerdì sera tornavo a casa ed era sempre una bella festa, come se fossi mancato per mesi e mesi. Ricordo con molto affetto quegli anni, fatti di sacrifici, certo, ma anche della gioia di un’identità che sentivo via via sempre più mia. Volevo fare l’infermiere e ci stavo riuscendo.
[…] Nel giro di una decina di mesi vinsi un concorso al nord, in Lombardia. Lì ho lavorato un paio di anni in una terapia intensiva. Anche se, per passione, avrei preferito specializzarmi in un altro tipo di reparto, le cose che si imparano in rianimazione restano impresse per sempre. Anche se non le si usano. In particolar modo il lavoro di squadra. In quell’ospedale si sentiva tanto l’importanza del singolo nell’équipe e per quanto molto non fosse applicato e le divergenze si protraessero a lungo, di fatto il ritmo e il carico di lavoro portavano a collaborare, volenti o meno. Per avvicinarmi a casa riuscii a fare un cambio con un collega dell’ASL 10 di Firenze. Feci tre anni in una terapia intensiva, di nuovo. Il livello era molto alto e i carichi assistenziali anche. Forse fu lì che iniziai a sentire la prima insoddisfazione.
Sinceramente non l’ho capito nemmeno io durante quel periodo, ma penso sia stato proprio quello l’inizio del burnout. Amavo il mio lavoro, ma al contempo sentivo ansia al pensiero di entrare in servizio. Anche quando smontavo da notte e quindi avevo il giorno di recupero e il giorno libero, l’ansia non spariva mai. Contemporaneamente, durante la notte tra il turno pomeridiano e il turno di mattina, difficilmente dormivo. Piano piano cominciai a non riuscire a dormire, indipendentemente dal turno. Mi sentivo pienamente in grado e competente, ma proprio non riuscivo ad affrontare il turno. […] Fu allora che chiesi il trasferimento, sperando di lasciare in quei box, tra monitor e pompe infusionali, quel senso di infelicità.
Arrivai in una medicina. Ritmi più tranquilli, complessità assistenziali inferiori. La notte riuscivi a stendere le gambe un paio d’ore […] I primi mesi non andava male, ma sentivo di avere sempre meno voglia di andare a lavoro. L’ansia si ripresentò e l’insonnia anche. Forse quella non se ne era mai andata del tutto.
[…] Nel nostro lavoro non puoi permetterti di lasciare qualcosa al caso o di tralasciare segni apparentemente innocui, anni di rianimazione mi hanno insegnato questo. Nonostante ciò, cominciai ad assumere comportamenti sempre più noncuranti della qualità del mio lavoro. Delegavo competenze e spesso lasciavo incombenze al turno successivo. I colleghi cominciarono a lamentarsene e la voce si sparse.
La cosa curiosa però è che mentre nella parte professionale della mia vita era frequente questa incontrollabilità emotiva, nella vita privata mi sentivo sempre più vuoto. È stata la mia compagna a farmelo notare.
Ho la fortuna di avere una compagna comprensiva e molto paziente. Non sapeva nemmeno che esistesse il burnout, ma ha capito e mi ha supportato molto. Con le amicizie invece è andata peggio, soprattutto per colpa mia. Mi sono pian piano isolato. Alcuni hanno capito, altri, invece, li ho persi. […]
Nell’estate del 2012 la mia compagna mi portò, quasi di forza, da una sua compagna di scuola, ora psicologa del lavoro. Fu la mia fortuna.
Volle sapere tutto quello che vi ho raccontato e mi spiegò cosa mi stava succedendo. Mi propose di fare insieme un percorso. All’inizio rifiutai. Poi verso l’autunno non riuscivo più a dormire e mi costrinsi ad andare. Penso che in fondo lo volessi. O forse fu orgoglio. Dopo quasi tre anni arrivò il giorno in cui mi dichiarò guarito, se così si può dire.”
Marie-Cécile: "Sono una sopravvissuta"
Questa la testimonianza di Marie-Cécile Godwin Paccard su Medium:
“[…] Il mio dottore potrebbe dirvi che è iniziato, forse verso marzo 2015, quando ha iniziato a vedere tutti i tipi di sintomi, palpitazioni cardiache, dolore casuale, estrema stanchezza, nuove allergie, fino al momento in cui non poteva fare nulla più, se non convincermi ad accettare un congedo per malattia. Tuttavia, guardando indietro all’anno e mezzo appena trascorso, sembra che il mio burnout sia stato molto prima. Mesi, forse anni. Che si stava lentamente accumulando, che in qualche modo sono sempre stata una sua vittima designata.
La caduta, tuttavia, è chiaramente evidente, memorabile. Siamo attaccati al muro, la nostra faccia è schiacciata contro di esso […] eppure, quello non è necessariamente il punto più basso che possiamo toccare, ma è il vero inizio, il momento stesso in cui il corpo fallisce, quando riconosciamo pienamente di essere nei guai, e che per la prima volta non c’è modo in cui possiamo ancora negarlo .
La mia caduta è avvenuta il 10 settembre 2015. Ero seduta alla mia scrivania, completamente esausta. Voglio dire, ancora più esausta di quanto non fossi stata negli ultimi 8 mesi. Le mie notti erano brevi, agitate, seguite da brutali risvegli. Ero sulla strada per diventare fisicamente malata e ricordo chiaramente come le mie articolazioni bruciassero e quanto fosse capriccioso il mio stomaco. La mia pelle era asciutta, i miei capelli e le unghie avevano quasi smesso di crescere. Dopo mesi di oscillazioni la mia Caduta, come molti altri, è arrivata sotto forma di un evento bizzarro: un cliente che rinuncia a un progetto, qualcosa che non mi è mai successo. […]
È come bere litri di caffè durante una notte insonne, tutto va bene fintanto che non ti fermi, fino a quando arriva un innocente momento in cui abbassi la guardia e chiudi gli occhi per un secondo. E boom, hai finito. Il mix di estrema debolezza e sollievo che ho sentito improvvisamente è stata la Caduta.
‘Marie, devi arretrare per un momento e riposare un po’. Hai una cattiva influenza sui tuoi colleghi e la tua negatività sta rovinando l’atmosfera’. Il tono con cui il mio manager mi ha chiamato il giorno dopo è stato un palese segnale della sua totale incapacità di mostrare empatia, come accade spesso quando siamo in burnout o nel mezzo di un lungo periodo di stress . E tutti sanno quanto lo stress può essere contagioso. Anche il cinismo. Tuttavia, aveva ragione: anche se non avessi lasciato una sola goccia di energia per preoccuparmi dell’atmosfera in ufficio e di come la influenzassi, h dovuto fare un passo indietro, almeno per la mia salute mentale, per la mia sopravvivenza .
[…] Ora posso solo dire grazie a un’intensa terapia basata sui fatti, assistita da un aiuto esperto. Sono andata in burnout un anno fa. Oggi sono ancora viva. Sono sopravvissuta. Perché l’unica cosa a cui puoi mirare quando esaurisci è la sopravvivenza. Finiamo per uccidere i nostri corpi con lo stress e l’unica cosa che cerchiamo di fare è sopravvivere. Ho dovuto passare attraverso una fase di isolamento, lontana dal mio lavoro o qualsiasi cosa ad esso relativa per almeno diversi mesi prima che potessi recuperare qualsiasi volontà di fare qualcosa che somigliasse al lavoro.
La prima volta che ho riaperto Photoshop, ho subito un attacco di panico che ha richiesto diversi giorni per spegnersi. La mia creatività era sparita, il mio cervello si era bloccato in modalità panico. Mi ci sono voluti più di 6 mesi per essere in grado di fare 3 ore di lavoro in un giorno, più di un anno per recuperare la mia piena capacità di affrontare una normale giornata di lavoro.
[…] Accettare il fallimento e il cambiamento inaspettato come parti intrinseche della vita, abbandonare le mie convinzioni limitanti e perdonarmi sono stati fondamentali per il mio recupero e ora sono parte integrante della mia vita quotidiana.”
Dopo 30 anni in reparto non riesco più a gestire la situazioe
La testimonianza di un’infermiera pediatrica sul sito Elisa Nigro:
“[…] lavoro in ospedale da oltre 30 anni. Ho lavorato in una neonatologia ed ora presto servizio in un reparto di pediatria generale. Ho scelto di fare questo lavoro all’età di 5 anni.
Durante la degenza per un intervento chirurgico subito a questa età, mi innamoro letteralmente delle infermiere che mi assistono e del loro lavoro e decido che ‘da grande’ farò l’infermiera che guarisce i bambini. […]
Mi iscrivo quindi alla scuola per infermieri pediatrici, denominata allora ‘Scuola per Vigilatrici d’Infanzia’ e ricordo questi tre anni tra i più sereni ed entusiasmanti della mia vita.
[…] La gerarchia professionale si sente. I primari e le caposala sono vere e proprie istituzioni a cui tutti portano rispetto. La scuola è dura, ma il mio percorso è tutto in discesa. Nell’estate 1984 mi diplomo con un ottimo punteggio e il mondo si apre davanti a me.
Inizio a lavorare in un reparto di Neonatologia. Ricordo nei minimi particolari il mio primo giorno di servizio e la mia gioia. Adoro questo lavoro, ogni parto è un’emozione unica, i turni mi piacciono e gestisco anche molto bene il mio tempo libero. Con le colleghe ho un buon rapporto e con qualcuna stringo un legame di vera amicizia. […]
Dopo anni di servizio al Nido, la routine inizia a pesarmi un pò. Il lavoro è ripetitivo, il contatto con le colleghe troppo stretto. I neonati in quegli anni restano prevalentemente al Nido, solamente qualche anno dopo la mia assunzione iniziano le prime esperienze di rooming, pratica che consente alla mamma di tenere accanto a sé il proprio bimbo e non in una stanza comune con gli altri neonati. Dopo parecchi anni, per una serie di fortuite occasioni, si presenta l’opportunità di ottenere un trasferimento in un reparto di pediatria generale, dove vengono assistiti bambini da zero a quattordici anni. […] Gli anni trascorrono sereni e non penso mai ad un possibile cambio di lavoro, tantomeno ad un’attività in ambito territoriale. Per me il ‘vero’ lavoro è in ospedale, lì trovo le mie soddisfazioni e le mie gratificazioni, e lì si compie la mia crescita professionale e personale. In reparto dimentico i problemi di casa (che nel corso degli anni sono stati tanti e alcuni molto pesanti sia psicologicamente che fisicamente).
Al lavoro sto bene, i bambini sono la mia passione, i genitori mi inteneriscono, provo per loro una forte empatia.
I ritmi di lavoro sono sostenuti, tuttavia riusciamo ancora a svolgere le nostre mansioni con la cura e l’attenzione necessarie in tempi assolutamente accettabili. Si trova il tempo per la pausa caffè, per il confronto personale e per due chiacchiere con i colleghi, momenti che ci aiutano a sostenere le inevitabili tensioni emotive e lavorative.
Ma lentamente, molto lentamente le cose iniziano a cambiare… L’equipe medica si rinnova frequentemente con le relative difficoltà ad instaurare con tutti sinergie di lavoro ottimali. Alcuni pediatri se ne vanno, ne arrivano di nuovi e la capacità di adattamento reciproca non sempre risulta semplice. […] Purtroppo per alcune colleghe e medici, che sono per me punti di riferimento, arriva il tempo della pensione. La loro assenza mi disorienta e sento forte la mancanza del loro sostegno. Subentrano altre figure professionali, altre colleghe, i ritmi di lavoro si fanno più frenetici, aumentano le attività di reparto e piano piano la pediatria cambia volto. [..] I genitori riversano sul personale tutte le loro ansie, che fortunatamente il più delle volte non trovano fondamento […] Hanno fretta, non accettano che i loro bimbi si ammalino, non vogliono che la malattia del figlio diventi un ostacolo ai loro programmi. I bambini vengono abitualmente assecondati nelle loro richieste anche quando queste rallentano il processo di guarigione. E io… Questo modo di essere genitori non riesco ad accettarlo. […]
Inizia una pesante insoddisfazione, i turni gravano sempre più e inizio a soffrire di emicrania con episodi che si presentano quindici/venti volte al mese. Vengo visitata da vari neurologi e tutti sono concordi nel dire che la mia emicrania sia correlata allo stress lavorativo, i turni certo non aiutano. Insieme all’emicrania si accentuano i disturbi del sonno e la mancanza di un adeguato riposo si ripercuote anche sul fisico. Fanno la loro comparsa disturbi di alimentazione incontrollata. Provo diverse terapie, tutte con scarsi risultati; solo l’arrivo della menopausa migliora l’emicrania diminuendo il numero delle crisi. Capirò dopo che l’emicrania, l’insonnia e le abbuffate sono le prime manifestazioni cliniche del burnout.
[…] La delusione, l’inquietudine e la stanchezza iniziano a segnare la famiglia, le amicizie e non per ultimo il mio benessere psico-fisico. Io, amante della lettura, non riesco più a leggere. Viene meno la voglia e la capacità di concentrazione e da qui capisco che il malessere, sta diventando malattia. Raramente rido, anche quando sono a casa in riposo non riesco a rilassarmi, a staccare la mente e a godermi in nessun modo la giornata libera. Mi sento infelice e incapace di fare progetti. All’infuori dell’orario di lavoro non pratico più alcuna attività, nè ludica, nè sportiva. […]
A malincuore riconosco di essere diventata cinica e distaccata dalle situazioni che mi circondano siano esse generate dai colleghi e/o dai pazienti. Il cercare con tutte le mie forze di nascondere il mio atteggiamento freddo e distante non fanno che peggiorare la situazione. Si fanno frequenti l’irritabilità (che si manifesta soprattutto in famiglia), le crisi di pianto, la tachicardia e le vertigini e con grande sofferenza, senso di frustrazione e di colpa sento che è arrivato il momento di fermarsi, di prendere un lungo periodo di pausa. Mi devo arrendere poiché i sintomi sono troppi e la difficoltà ad entrare in reparto si fa ogni giorno più forte. […]
Un psichiatra mi aiuta con la prescrizione di farmaci in grado di curare la sintomatologia psichica (ansia, depressione e insonnia) e una psicologa mi supporta con incontri settimanali duranti i quali inizio un percorso di terapia cognitivo-comportamentale che mi forniscono le strategie per affrontare buona parte dei miei problemi.
Ora a distanza di alcuni mesi di terapie e colloqui, posso dire di sentirmi meglio. Chiedo di essere trasferita dal reparto, in quanto ora mi sento incapace di frequentare e ritengo che l’’nica soluzione (almeno per ora) sia quella di essere adibita ad un lavoro in ambiente extra ospedaliero che non preveda l’effettuazione di turni. Devo trovare una collocazione in cui lo stress sia contenuto e dove io possa svolgere le mie mansioni con maggior serenità per riconquistare il mio benessere emotivo e fisico, mantenendo comunque le mie peculiarità e le mie capacità professionali. Spero che il tempo e i cambiamenti mi aiutino a ritrovare lo slancio di un tempo in cui ero sicura di avere scelto e trovato il ‘mio’ lavoro ideale.”
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