Perché anche la Spagna vuole il diritto all'aborto in Costituzione (e anche noi!)

Perché la Spagna chiede il diritto all'aborto in Costituzione e perché, definire maggiormente questo diritto, è un passo a cui anche l'Italia dovrebbe puntare (nonostante tutte le limitazioni che esistono)

Nonostante sia un argomento sensibile, che tocca in modo intimo e personale le donne, e che dovrebbe dipendere unicamente dalla volontà delle stesse, l’aborto, inteso come Ivg o interruzione di gravidanza volontaria, non smette mai di far discutere, troppe volte limitando o azzerando il potere decisionale di coloro che la gravidanza la devono sostenere, alte volte in favore delle donne e della loro implicazione totale nella stessa. Ed è quello che sta accadendo in Spagna, dove il Primo Ministro Sanchez ha annunciato di voler presentare al Congresso la proposta di includere il diritto all’aborto in Costituzione. Cosa che per ora ha soltanto la Francia.

Una proposta che, se pensiamo al nostro Paese, sembra un miraggio, visto che nonostante ci siano leggi che regolamentano l’aborto volontario, non c’è giorno in cui questa possibilità e garanzia per le donne venga messa in discussione, come se la donna stessa non avesse la capacità di decidere per se stessa o ancora negandole il diritto di farlo, rendendolo difficile se non, in alcuni casi, impossibile.

Il diritto all’aborto in Spagna

Prima di vedere cosa accade nel nostro Paese, però torniamo in Spagna, uno Stato che attualmente ha già una Legge sull’aborto. Dal 2010, infatti, l’Ivg è gratuita fino alla 14esima settimana di gestazione. Dopo tale limite, e fino alla 21esima settimana di gestazione, la prestazione resta gratuita solo in caso di aborto terapeutico, ovvero se l’interruzione avviene per motivi medici (malformazione del feto o pericolo di vita della madre durante la gravidanza).

Superata la 21 esima settimana, quindi a partire dalla 22esima, l’aborto rimane consentito nel caso in cui vengano rilevate successivamente a tale termine delle anomalie fetali incompatibili con la vita o in caso di malattia ritenuta estremamente grave e/o incurabile nel feto. Un diritto che, in questi casi specifici, deve essere avvallato e approvato da un comitato clinico che accerti la presenza delle condizioni appena citate.

Ma non solo. Essendo un diritto regolamentato, tutti gli ospedali pubblici hanno l’obbligo di garantirne la fattibilità, organizzando a livello di comunità autonome, le proprie risorse, per fare in modo che le donne possano interrompere la gravidanza nel centro pubblico più vicino, e facendosi carico di garantire questo servizio se questo dovesse, per mancanza di risorse, spostarsi verso una struttura privata.

In più, sono le donne che possono scegliere se eseguire l’Ivg tramite aborto chirurgico o farmacologico, che in ogni caso devono essere garantiti e disponibili in tutti i centri.

Da dove nasce la proposta del Primo ministro Sanchez

La proposta di Sanchez, quindi, va a rafforzare questa linea, con l’intendo di rendere l’aborto un diritto fondamentale, introducendolo all’interno della carta costituzionale e di fatto blindando il diritto come inviolabile.

Una proposta che nasce in contrapposizione a una mozione che il partito di estrema destra Vox, ha approvato all’interno del comune di Madrid, e che va ad obbligare le donne che decidono di sottoporsi all’interruzione volontaria di gravidanza ad essere informate su ipotetici rischi che deriverebbero da una sindrome post aborto, che porterebbe a depressione, senso di colpa radicato, anoressia o bulimia, isolamento, ecc. ma che però non ha alcuna base scientifica.

Un passo avanti maggiore rispetto all’attuale legge, messo in atto anche e soprattutto per evitare che le forze di destra del Paese, mettano in discussione il diritto all’aborto già sancito da una sentenza della Corte costituzionale del 1985, assicurando la possibilità di interrompere la gravidanza senza che questa venga minata da informazioni false e che non hanno nessuna evidenza scientifica.

L’obbligo, infatti, è che qualsiasi informazione data riguardo l’Ivg abbia una base scientifica, supportata da istituzioni internazionali, come l’Organizzazione Mondiale della salute (Oms) o l’Associazione Americana di Psichiatria (Apa).

Una tutela maggiore a un diritto che dovrebbe essere dato per scontato ma che di fatto così non è.

Cosa succede in Italia

E ci basta guardare all’Italia per capirlo. Nel nostro Paese, infatti, Il diritto all’aborto dovrebbe essere veicolato dalla legge 194/1978, che dovrebbe garantire libero accesso all’aborto chirurgico o farmacologico.

Pur riconoscendo il diritto alla vita dell’embrione e del feto, la legge tutela il diritto della donna, e qualora la sua salute fisica o psichica venga messa a rischio, sia dalla gravidanza, che dal parto, che dalla maternità tutta, la gravidanza può essere interrotta in modo volontario.

L’Ivg, quindi, è consentita entro i primi 90 giorni (12 settimane e 6 giorni dall’ultima mestruazione), anche solo sulla base di una valutazione autonoma della donna che lo richiede. Dopo questo termine, dalla 13esima settimana, l’aborto è ammesso solo nei casi in cui un medico (sia del consultorio o anche un medico di fiducia) rilevi e certifichi che la gravidanza possa essere pericolosa per la vita della donna che la porta avanti, sia in termini di salute fisica che psichica.

Sia prima che dopo questi 90 giorni, è necessario, rivolgersi a un medico che deve redigere un documento che attesti la richiesta. Un certificato necessario per poter accedere all’Ivg.

I limiti e gli ostacoli alla legge italiana

Ed ecco il primo ostacolo. Nel caso in cui il medico non ritenga urgente l’interruzione, anche tenendo conto dei problemi che possono subentrare nel progredire della gravidanza, la donna, deve rispettare un periodo che viene definito di “riflessione” di sette giorni, e solo dopo questa settimana, può rivolgersi a un centro autorizzato per eseguire la procedura.

Ma non è tutto. Nonostante la legge 194 non definisce un limite di epoca gestazionale per poter praticare l’aborto terapeutico, nell’articolo 7 della stessa è stato stabilito che, nel caso in cui il feto abbia raggiunto uno stadio di sviluppo che gli permetta di sopravvivere anche fuori dall’utero materno (ovvero dalla 22 esima/24esima settimana di gestazione) il medico è tenuto a mettere in atto tutti gli interventi possibili per salvaguardarne la vita.

Un limite che porta, pur tenendo sempre in conto la compatibilità della patologia fetale con la vita, a non poter praticare l’Ivg dopo la 22esima settimana di gestazione, cosa che porta le donne che ricevono una diagnosi di patologia fetale oltre questa settimana di gestazione, a rivolgersi all’estero per poter abortire, con tutte le problematiche del caso. Un altro problema, poi, è dato dal grande numero in Italia di medici obiettori di coscienza, che possono rifiutarsi di praticare l’Ivg, limitando concretamente la disponibilità di personale e servizi e rendendo difficile l’accesso al servizio alle donne, soprattutto in determinate zone del nostro Paese.

In più, per aggiungere un ulteriore muro da varcare per poter accedere a quello che dovrebbe essere un diritto, il 23 aprile del 2024 è stata approvata la legge che consente l’inserimento delle associazioni pro-vita nei consultori.  La normativa, l’emendamento all’articolo 44 del Decreto PNRR, permette alle Regioni di coinvolgere il terzo settore, comprese le associazioni con esperienza nel sostegno alla maternità, nell’organizzazione dei servizi di consultorio, cosa che invece di incrementare il sostegno alle donne che decidono di avvalersi dell’Ivg, ha scatenato grandi polemiche riguardo la limitazione della libertà di scelta in merito all’aborto.

Perché abbracciare la proposta di Sanchez

La proposta di Sanchez, quindi, se da un lato mira a sottolineare e rendere granitico un diritto che ogni donna deve poter esercitare senza limitazioni e/o minacce, dall’altro dovrebbe essere un faro da seguire anche per il nostro Paese, che al contrario sembra andare nella direzione opposta, promuovendo la salvaguardia della vita, dimenticandosi però della vita di chi ha la facoltà di poter scegliere e decidere per la propria.

Un’azione del governo, che se anche rimanesse simbolica, visto che per passare necessita della maggioranza qualificata di due terzi del Congresso dei deputati e quindi anche del voto a favore del Pp, che è altamente diviso sulla questione, manda comunque un segnale forte sulla volontà di tutelare le donne e i loro diritti in ogni modo possibile.

Una tutela che in Italia non viene data, se non in parte sulla carta ma non nei fatti, e che qui viene portata avanti da associazione, iniziative e campagne di advocacy come “Libere di Abortire”, in cui si richiede il pieno e concreto accesso all’aborto in Italia.

Un accesso all’Ivg che superi gli ostacoli legati all’alta percentuale in Italia di medici obiettori di coscienza oltre che alla mancanza di informazioni, garantendo a tutte le donne la possibilità di interrompere la gravidanza, promuovendo e sottolineando la libertà di scelta della donna e contestando l’applicazione attuale della legge 194/1978.

Una campagna che punta all’attuazione di un diritto, che vuole mettere a conoscenza le donne di sapere cosa possono fare se decidono di abortire, e cosa invece non è lecito subire. E che mette in luce, ancora di più, quando sia ancora lontano il giorno in cui, quando si tratta di diritti sul corpo delle donne, sulla loro salute fisica e mentale, ci sia bisogno di lottare, anche contro le leggi del proprio governo.

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