CFS, la malattia che ruba la vita a milioni di persone, ma di cui nessuno parla

A lungo le hanno definite "stressate, isteriche, nevrotiche". Eppure, le donne malate di CFS soffrono di un problema molto grave: perché la sindrome da stanchezza cronica, tanto spesso sottovalutata o etichettata come "inesistente", ha effetti potenzialmente devastanti.

La CFS è una malattia dagli effetti potenzialmente devastanti, eppure solo negli ultimi anni il mondo medico sembra avere iniziato a prenderla seriamente in considerazione. La chronique fatigue syndrome, la sindrome da fatica cronica, riduce letteralmente a pezzi la vita di chi ne soffre, annientandola e impedendo la realizzazione delle attività anche più elementari, ma dagli anni ’80, anni in cui se n’è cominciato a parlare, è stata, nella maggior parte dei casi, bollata semplicemente come “eccessivo stress” o, peggio, ancora, isteria.

Può sembrare sorprendente, se si considera che negli Stati Uniti questo disturbo, incurabile, affligge dalle 800 mila ai 2,5 milioni di persone, ma a spiegare, almeno parzialmente, il fatto che il problema sia rimasto ampiamente sottovalutato così a lungo può contribuire, in questo caso, il contesto storico e sociale particolare: anzitutto, occorre dire che la malattia si manifesta maggiormente in giovani e donne, nella fascia compresa tra i 35 e i 40 anni d’età, mentre è quasi del tutto assente nell’età pediatrica e dopo i 65 anni. Secondo una ricerca canadese condotta nel 1997 e riportata da Linkiesta, la maggior incidenza nelle donne risulterebbe collegata a un volume ematico inferiore e alla minore massa di cellule plasmatiche presenti nel sesso femminile rispetto a quello maschile; questo però, naturalmente, non spiega perché il disturbo venisse spesso etichettato come “eccesso di stress” e le pazienti che si presentavano dai medici lamentando il malessere venissero rispedite a casa velocemente. Per chiarire la situazione, lo abbiamo detto, occorre fare un passo indietro e tenere presente il contesto storico e sociale che si viveva soprattutto negli anni ’80: la CFS è finita nei radar del Center for Diseases and Control alla metà del decennio, dopo lo scoppio di un focolaio nei pressi di Lake Thoe, e il mondo della medicina si è immediatamente diviso fra quanti hanno rilevato la gravità del problema e chi invece – la maggior parte – ha finito con il definirla “l’influenza yuppie”. In un periodo in cui le donne in carriera cominciavano a prendere campo e, come spiegava un articolo del 1992 di Psychosomatic Medicine descrivendo il quadro generale della situazione, “le lotte femministe degli anni ’70 le avevano portate a volere tutto, sia una carriera appagante che un famiglia felice”, chi lamentava i sintomi della CFS, allora ancora senza nome, veniva semplicemente catalogata in quella schiera, stereotipata, di donne che volevano tutto, “troppo”, e ne pagavano le conseguenze. Insomma, l’associazione era facile: vuoi essere indipendente, vuoi essere realizzata professionalmente, ma vuoi anche dei figli e occuparti di loro, quindi è normale che tu sia stressata. Ecco perché il problema veniva preso decisamente sottogamba e chi, come un medico di San Francisco, lanciava campanelli d’allarme sostenendo si trattasse di qualcosa di più grave, veniva attaccato con l’accusa di voler fare “milioni di dollari sulla pelle di donne nevrotiche“.

La situazione, così, si è trascinata per tutto il decennio e anche per buona parte di quello successivo, fino a quando l’ispettorato generale dell’ Health & Human Services ha notato che il CDC aveva dirottato i soldi, destinati alla ricerca sulla CFS, su altri progetti, mentendo al Congresso circa il loro utilizzo; anche il National Institutes of Health ha ammesso di aver sprecato i finanziamenti in favore della ricerca, invertendo la rotta solo nel 2015, quando tutti hanno dovuto ammettere l’inadeguatezza dell’approccio alla malattia.

Adesso la World Health Organization la classifica come potenzialmente devastante con codice ICD 10 G.93.3, riporta Linkiesta, e, in effetti, la sintomatologia è quella di una malattia multisistemica che comprende problemi neurologici (disturbi della concentrazione e della memoria a breve termine), di origine gastrointestinale e genitourinaria, intolleranza ortostatica, disturbi del sonno, tachicardia, dolori articolari e, naturalmente, stanchezza cronica. Proprio considerando che quest’ultimo sia solo un aspetto della malattia e non il fattore dominante, la Commissione Internazionale di Consenso nel 2011 ha ritenuto più corretto definirla Encefalomielite Mialgica (ME).

Eppure, nonostante i notevoli passi avanti compiuti dalla scienza medica rispetto al problema, esiste ancora una sorta di sessismo nemmeno troppo latente sul modo in cui molti dottori si ostinano a trattare le pazienti che si presentano da loro lamentando dolori tipici della ME/CFS. Jen Brea, ad esempio, lotta con la malattia da più di due anni e sta lottando affinché i suoi appelli ai medici vengano ascoltati e presi seriamente in considerazione. Come racconta Cosmopolitan, che ha raccolto la sua storia, Jen aveva 28 anni ed era una brillante studentessa di Harvard quando ha notato che la sua salute stava iniziando a deteriorare dopo aver avuto la febbre a 40°. Ha passato un anno cercando di trovare la spiegazione ai suoi malanni, alle infezioni ricorrenti, ai disturbi neurologici, sentendosi dire di volta in volta di essere solo stressata, disidratata, isterica. Un neurologo le disse che i suoi sintomi erano manifestazioni represse di un trauma che aveva dimenticato. Di ritorno dall’ennesima visita, a casa Jen avvertì una sensazione di panico, la colonna vertebrale e il cervello come se stessero andando a fuoco, e da quel giorno è stata costretta a letto per la maggior parte dei due anni successivi.

Un fotogramma del documentario Unrest (Fonte: Jason Frank Rothenberg)

Jen è convinta che il motivo per cui molti medici tendano ancora a prendere sottogamba la CFS è che non hanno idea di quanto possa essere effettivamente dolorosa: eppure, può riportare testimonianze di persone che non hanno più potuto parlare per un anno, altre che non sono state in grado di muovere un passo per sei. Lei stessa è tutt’ora costretta all’immobilità per gran parte del tempo e, anche quando, esce, dice di non poter fare che per “30 metri al massimo, così devo usare una sedia a rotelle per muovermi e, se sto fuori casa più tempo del dovuto, poi ne pago le conseguenze”.

A volte – dice Jen – le persone si domandano: ‘Ma se stesse così male, come potrebbe essere ignorata?’. Il fatto è che chi soffre di questa sindrome ha difficoltà a lasciare la propria casa o a tutelarsi. Se ci vedete, è perché siamo ‘normali’, ma se stiamo male non ci vedrete. È un problema che, quando c’è, nessuno può vedere“.

Non più in grado di parlare o di scrivere, Jen ha cominciato a tenere un video diario sul suo iPhone per documentare la sua esperienza; questo è diventato Unrest, un documentario che ha partecipato al Sundance Film Festival 2017, uscito negli USA il 22 settembre scorso e prossimamente in programmazione anche nel Regno Unito. Lei ricorda ancora il momento esatto in cui ha capito che documentare la propria malattia potesse essere un modo efficace per farla conoscere al pubblico: stava descrivendo all’ennesimo medico il crollo della notte precedente, ma lui prestava attenzione solo per dovere, fino a quando lei non gli mostrò il video che riprendeva la sua faccia premuta contro il pavimento. “In quel momento è impallidito – dice Jen – e ha ordinato subito una serie ulteriore di esami. Lì ho capito che vedere è credere, per questo ho deciso di trasformare la mia malattia in un video diario“.

Le risposte che Jen ha ricevuto nel corso degli anni sono le stesse che migliaia di donne con malattie autoimmuni si sono sentire dare di volta in volta: lamentose croniche, la diagnosi impietosa in moltissimi, troppi casi. E il problema, allargandolo, non riguarda solo le malate di ME/CFS, ma anche chi, ad esempio, è stata rimandata a casa con un infarto in corso “accusata” di essere malata di ansia, o chi si è sentita dire di essere “in cerca di attenzioni” prima di ricevere una diagnosi di tumore al cervello; ancora, ci sono le donne che, prima di avere confermata l’endometriosi, sentono a lungo parlare di crampi mestruali dolorosi e basta.

Unrest vuol essere la prova che vedere è credere; ma la verità più importante che il documentario sbatte in faccia a tutti, è che ciascuno dovrebbe avere il diritto di essere ascoltato, non etichettato come “stressato” o “isterico”.

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